martedì 30 settembre 2014

Prove nel Tempo. Prove nello Spazio

Parliamo della Grande Piramide. Gli storici affermano che fu costruita nel periodo in cui Cheope era Faraone d'Egitto. Secondo Erodoto, richiese trent'anni per costruirla. Oggi ci sembrano tanti per costruire un edificio. Ma cosa comportava costruire quella piramide?

Allora, lasciamo da parte i blocchi di granito che si trovano all'interno della piramide, pesanti circa 80 tonnellate: sono comunque pochi, erano "facilmente" posizionabili. Esaminiamo invece i blocchi di calcare da 1-2 tonnellate: quelli sono agevoli da trasportare e posizionare. Ma cosa significa posizionarli tutti in 30 anni? I blocchi sono circa 1.000.000 (non li ho contati io, questa è la stima degli egittologi). Costruire la piramide in 30 anni vuol dire posizionare 33.000 blocchi all'anno, poco meno di 100 blocchi al giorno, praticamente quattro bloccohi ogni ora lavoranndo 24 ore su 24, in ogni singolo giorno di questo periodo. E i blocchi dovevano essere scavati, trasportati fino al cantiere, e posizionati. Un lavoro impossibile da compiere in 30 anni, sarebberò occorsi secoli. E un lavoro che richiede secoli non può essere compiuto per costruire una tomba.

Inoltre, punto 2: i geroglifici. Nella camere e nei corridoi della Grande Piramide non ci sono geroglifici, mentre ci sono nelle tombe dei dignitari dello stesso periodo. L'unico geroglifico trovato si trova nelle camere segrete, che si trovano sopra la Camera del Re, e rappresenta il nome Cheope, scritto però in maniera errata. Questo errore è lo stesso che si faceva ai tempi in cui il geroglifico venne scoperto, mentre studi successivi hanno corretto l'errore.

"Gli uomini hanno paura del tempo, ma il tempo ha paura delle piramidi."

Potete anche approfondire il tema della Piana di Giza, andando a leggere l'articolo riguardante la Sfinge di Giza.

A cosa serviva la Grande Piramide di Cheope?

L'archeologia ufficiale ritiene che questa piramide fosse una tomba.

Ma lo era davvero? In realtà non vi sono prove che questo fosse il suo scopo, semplicemente ci si basa sul fatto che, siccome le altre piramidi erano tombe, anche questa lo era. Però nelle altre piramidi ci sono i geroglifici, cosa assente in questa. Inoltre non vi è mai stata trovata nessuna traccia di sepoltura al suo interno.

10.500 A.C. LA DATA DEI MISTERI

Secondo la teoria di un ricercatore italiano, in realtà questa piramide era una sorta di rifugio per un oggetto considerato importante, lo Zed.

GLI EGIZIANI HANNO “COSTRUITO” LE PIRAMIDI?

Secondo l'egittologia ufficiale, per costruire le grandi piramidi gli antichi egizi, che non conoscevano la ruota, hanno estratto pietre dalle cave e le hanno trasportate fino al luogo di costruzione delle piramidi, lavorando per decenni/secoli.

Esiste tuttavia un'altra teoria, basata sugli studi di Joseph Davidovits, un chimico francese, che negli anni 70 ha creato un nuovo ramo della chimica dei minerali, i “geopolimeri”.

Secondo questa interessante teoria, i costruttori delle piramidi avrebbero prelevato il minerale dalle cave di calcare polverizzandolo, poi una volta trasportato nel cantiere lo avrebbero mischiato con la calce, l'argilla caolinitica, il limo e il sale natron (carbonato di sodio). Il fango calcareo così ottenuto sarebbe stato trasportato facilmente, e infine versato negli stampi posizionati sul sito di costruzione. Una volta essiccando, tali blocchi sarebbero diventati simili al calcestruzzo e molto resistenti.

Come ogni teoria va però verificata, così nel 2002 un equipe francese dell'Istituto Geopolimeri ha cercato di realizzare dei blocchi utilizzando i materiali che erano disponibili agli antichi egizi, realizzando dei blocchi di pietra con la stessa composizione ed aspetto di quelli utilizzati nella costruzione delle piramidi. Una possibile prova di questa teoria è data dal recente ritrovamento di capelli e di altro materiale all'interno dei blocchi di pietra utilizzati per la costruzione delle piramidi.

Inoltre, potendo realizzare dei blocchi di pietra della forma e dimensione desiderata, si riescono a spiegare sia la precisione nel taglio delle pietre, sia gli incastri perfetti che sono stati realizzati.

Questa teoria spiegherebbe anche la realizzazione di stupendi oggetti di rara bellezza, realizzati in materiali estremamente duri e ancora oggi difficili da lavorare.

STORIA UFFICIALE

La sfinge di Giza, che con le sue incredibili misure (è lunga 73 metri, larga 6 metri e raggiunge nel punto più alto un'altezza di 20 metri) è considerata la più grande statua monolitica al mondo, secondo l'archeologia ufficiale fu costruita da Chefren (Userib), oppure dal padre Cheope, circa 4.500 anni fa. Questa statua raffigura un leone con un volto umano. Quando la necropoli di Giza fu abbandonata, la sabbia ricoprì fino alle spalle la Sfinge.

Nel 1.400 a.C. Il giovane Thutmose IV, dopo che in sogno il Dio Sole Ra-Harakhti gli promise il regno se avesse liberato la Sfinge dalla sabbia, la dissotterrò. Una volta che divenne Re, Thutmose fece scolpire una stele di granito che venne collocata tra le zampe della statua per commemorare l'evento.

10.500 A.C. LA DATA DEI MISTERI

In seguito la sabbia ebbe nuovamente il sopravvento. Solamente grazie a lavori avviati nel 1817 da Giovanni Battista Caviglia, proseguiti da Auguste Mariette nel 1853 e terminati da Gastone Maspero nel 1886, oggi è possibile vedere la Sfinge.

Purtroppo, la statua ha subito numerosi danni nel corso dei secoli, provocati da tempo, erosione ed opera dell'uomo. Il naso fu distrutto, secondo fonti arabe, nel corso del XIV secolo d.C.

INCONGRUENZE

1 – La Sfinge ha corpo leonino e testa umana Quale significato aveva questa statua? Non esiste nessun riferimento religioso o mitologico nella cultura egizia a questa fusione di uomo e animale. Il riferimento che più ci si avvicina è quello relativo a Sekhmet, la Dea egizia con corpo umano e volto di leonessa.

2 – L'erosione Secondo studi geologici effettuati sulla roccia che si trova alla base della sfinge, questa ha subito una forte erosione dovuta all'acqua. Però, le precipitazioni in Egitto negli ultimi 4.500 anni non sono state così intense da provocare un alto tasso di erosione.

3 – I Riferimenti Storici I documenti che ci sono pervenuti dall'antico Egitto, risalenti all'epoca che va dal Nuovo Regno all'epoca Romana, parlano della Sfinge come di un monumento più antico delle piramidi.

4 – La “Stele dell'Inventario” Su questa stele, risalente al 6° o 7° secolo a.C., risulta che al Sfinge esisteva già ai tempi di Cheope, e che il Faraone restaurò la statua che fu colpita da un fulmine. Secondo ciò che è scritto sulla stele, la stessa è la copia di un testo più antico.

5 – La Sabbia Come è possibile che gli antichi egiziani abbiano costruito questo immenso monumento, e la vasca che lo contiene, senza pensare che la sabbia lo avrebbe ricoperto?

TEORIA ALTERNATIVA

Secondo alcuni studiosi alternativi, la testa e il corpo non risalgono alla stessa epoca.

Secondo questa teoria, la Sfinge in origine rappresentava un leone e fu costruita nel 10.500 a.C. Questa data deriva dal fatto che nel 10.500 a.C. la Sfinge, che è rivolta ad oriente, guardava se stessa nel firmamento, difatti in quel periodo il sole sorgeva nella costellazione del Leone, e la Sfinge riproduce questa costellazione.

In seguito, la Sfinge venne restaurata in epoca più recente, e le venne dato un volto umano dal suo restauratore.

10.500 A.C. LA DATA DEI MISTERI

PERCHE' LA SFINGE VIENE ATTRIBUITA A CHEFREN / CHEOPE?

1 – La vicinanza con la piramide di Chefren.
2 – La Sfinge fa parte dell'architettura della Piana di Giza.
R – nessuno di questi due punti prova in alcun modo che la Sfinge non si trovasse già lì prima della costruzione delle Piramidi, e che le piramidi non siano state costruite in modo da integrarsi con la Sfinge già esistente. In qualunque città italiana vediamo monumenti antichi, magari risalenti all'epoca Romana, affiancati ad edifici più moderni.

3 – Nel tempio attiguo alla Sfinge sono state trovate statue raffiguranti Chefren.
R – Statue che possono anche essere state messe nel tempio secoli / millenni dopo la sua costruzione.

4 – Il volto della Sfinge somiglia a quello di Chefren, inoltre sul capo possiede il copricapo tipico dei Faraoni.
R – Se il volto è stato restaurato in seguito, questo punto è facilmente spiegato. Inoltre, il volto ritratto sulla Sfinge non somiglia poi molto a quello di Chefren, che conosciamo grazie alle statue giunte a noi.

10.500 A.C. LA DATA DEI MISTERI

5 – La stele posta tra le zampe della Sfinge contiene un geroglifico con la prima sillaba del nome Chefren (Khaf).
R – La sillaba Khaf veniva usata in molte altre parole, oltre che nel nome Chefren. Inoltre i nomi dei Faraoni venivano rinchiusi in un cartiglio, cosa che in questa parola non avviene.

6 – L'erosione può avere altre spiegazioni, dovute all'umidità nella sabbia o alle precipitazioni nell'antico Egitto, più frequenti che oggi.
R – L'erosione della Sfinge è sicuramente dovuta alla pioggia battente, secondo le perizie geologiche fatte sulla statua. Se davvero fosse stata edificata nel 2.500 a.C. come dicono gli storici, essendo già completamente sepolta nel 1.400 a.C., sarebbe stata sottoposta alle intemperie per un lasso di tempo molto breve, troppo per il livello di erosione raggiunto.

7 – Non vi sono indizi / prove che in epoca precedente esistesse una civiltà in grado di edificare un simile monumento.
R – Nel sud dell'Egitto si trovano le rovine di Nabta Playa, risalenti al 5.000 a.C., in cui si trovano i più antichi allineamenti di pietre esistenti. Il sito è stato definito la Stonehenge egiziana.

ANGKOR WAT

Costruita da esperti ingegneri idraulici, che avevano tracciato un sistema con cui accumulavano l'acqua delle stagioni monsoniche per distribuirla in quelle secche, la città aveva torri e tetti ricoperti di lamine d'oro, e bassorilievi che raccontavano la vita quotidiana di un popolo ricco, libero e segnato da uno splendore assoluto, appena contaminato dalle prime avvisaglie di decadenza che spesso colpiscono un popolo all'apice della sua prosperità.

Com'è possibile dunque che questa meraviglia dell'uomo, raccontata già da Marco Polo, finisse poi abbandonata, e coperta dai secoli e dalla vegetazione, in seguito alla invasione Siamese, senza che nessuno si occupasse più degli edifici e del sistema idrico, lasciando che la foresta si riprendesse quel terreno con tutte le costruzioni? Questo è solo il primo degli interessantissimi interrogativi che Angkor Wat propone ai visitatori che in questi ultimi anni, in numero sempre crescente, la vanno a esplorare, rimanendo a bocca aperta per i suoi paesaggi e l'atmosfera irreale che la pervade. 

Ma ci sono anche altri misteri legati a questo luogo: per esempio le iscrizioni che indicano il re fondatore della città, Jayavarman II, come erede di una stirpe eletta, quella dei seguaci del dio Horus (lo stesso dei Faraoni). 

Oppure le molte affinità tra la civiltà Maya e quella Khmer di Angkor. Ancora: i settanta edifici sacri (risalenti all'incirca al 1150) sono disposti lungo una linea che sembra seguire perfettamente quella della costellazione del Drago, solo che l'analisi dei segni sul terreno in corrispondenza della linea della costellazione sembrano risalire a molto molto prima, addirittura al 10.500 A.C., come se fossero la riproduzione in terra di una mappa celeste. Per non parlare poi di un altro mistero, forse quello più famoso, ovvero quello che corre lungo tutta la struttura muraria di Angkor Wat: 1.796 ritratti dettagliatissimi di donne, le Devata, di cui non si conosce il significato e la ragione di culto (forse era una celebrazione dell'importanza femminile nella prosperità dell'impero Khmer).

GOBEKLI TEPE

Gobekli Tepe è un sito archeologico a circa 18 km a nordest dalla città di Şanlıurfa nell’odierna Turchia, presso il confine con la Siria, nel quale è stato rinvenuto il più antico esempio di tempio in pietra, risalente al 9600 a.C. e che sta sconvolgendo tutte le certezze sulle origini della civiltà.

10.500 A.C. LA DATA DEI MISTERI

Le più antiche testimonianze architettoniche note in precedenza erano le ziggurat babilonesi, datate 5000 anni più tardi. Secondo gli studiosi, la sua costruzione ha impegnato diverse centinaia di uomini nell’arco di alcuni secoli.

Göbekli Tepe, ricorda vagamente Stonehenge, ma fu costruito molto prima, e non con blocchi di pietra tagliata grossolanamente ma con pilastri di calcare finemente scolpiti a bassorilievo: una sfilata di gazzelle, serpenti, volpi, scorpioni, cinghiali selvatici.

Il complesso risale a sette millenni prima della Grande Piramide di Giza, ed è il più antico esempio noto di architettura monumentale. Intorno all’8000 a.C. il sito venne deliberatamente abbandonato e volontariamente seppellito con terra portata dall’uomo.

Gli archeologi continuano a scavare e a discutere sul suo significato. Göbekli Tepe e altri siti mediorientali stanno cambiando le nostre idee su una svolta fondamentale nella storia umana: la rivoluzione neolitica, quando i cacciatori-raccoglitori nomadi si trasformarono in agricoltori stanziali.

Il sito si trova su una collina artificiale alta circa 15 m e con un diametro di circa 300 m, situata sul punto più alto di un’elevazione di forma allungata, che domina la regione circostante, tra la catena del Tauro e il Karaca Dağ e la valle dove si trova la città di Harran. Il sito utilizzato dall’uomo avrebbe avuto un’estensione da 300 a 500 m².

Finora meno di un decimo del sito è stato riportato alla luce, ma basta a dare un’idea del timore reverenziale che il tempio incuteva ai pellegrini che si radunavano qui ben 7.000 anni prima della costruzione di Stonehenge.

Gobekli Tepe fu individuata la prima volta nel 1963 da un gruppo di ricerca turco-statunitense, che notò diversi consistenti cumuli di frammenti di selce, segno di attività umana nell’età della pietra. Il sito fu poi riscoperto trent’anni dopo da un pastore locale, che notò alcune pietre di strana forma che spuntavano dal terreno.

La notizia arrivò al responsabile del museo della città di Şanlıurfa, che contattò il ministero, il quale a sua volta si mise in contatto con la sede di Istanbul dell’Istituto archeologico germanico. 

Gli scavi furono iniziati nel 1995 da una missione congiunta del museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico sotto la direzione di Klaus Schmidt, che dall’anno precedente stava lavorando in alcuni siti archeologici della regione. Nel 2006 gli scavi passarono alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.

Gli scavi portarono alla luce un santuario monumentale megalitico, costituito da una collina artificiale delimitata da muri in pietra grezza a secco. Furono inoltre rinvenuti quattro recinti circolari, delimitati da enormi pilastri in calcare pesanti oltre 10 tonnellate ciascuno, probabilmente cavati con l’utilizzo di strumenti in pietra. Secondo il direttore dello scavo le pietre, drizzate in piedi e disposte in circolo, simboleggerebbero assemblee di uomini.

La scoperta più interresante riguarda le circa 40 pietre a forma di T, alte fino a cinque metri e mezzo. I blocchi di calcare, del peso di cinque tonnellate, furono portati qui da una cava vicina anche se le popolazioni dell’epoca non conoscevano la ruota né avevano ancora addomesticato le bestie da soma. La maggior parte di esse sono incise e vi sono raffigurati diversi tipi di animali (serpenti, anatre, gru, tori, volpi, leoni, cinghiali, vacche, scorpioni, formiche). Alcune incisioni vennero volontariamente cancellate, forse per preparare la pietra a riceverne di nuove. Sono inoltre presenti elementi decorativi, come insiemi di punti e motivi geometrici.

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Indagini geomagnetiche hanno indicato la presenza di altre 250 pietre ancora sepolte nel terreno. Un’altra pietra a forma di T, estratta solo a metà dalla cava, è stata rinvenuta a circa 1 km dal sito. Aveva una lunghezza di circa 9 m ed era probabilmente destinata al santuario, ma una rottura costrinse ad abbandonare il lavoro.

Oltre alle pietre sono presenti sculture isolate, in argilla, molto rovinate dal tempo, che rappresentano probabilmente un cinghiale o una volpe. Confronti possono essere fatti con statue del medesimo tipo rinvenute nei siti di Nevalı Çori e di Nahal Hemar.

Gli scultori dovevano svolgere la loro opera direttamente sull’altopiano del santuario, dove sono stati rinvenute anche pietre non terminate e delle cavità a forma di scodella nella roccia argillosa, secondo una tecnica già utilizzata durante l’epipaleolitico per ottenere argilla per le sculture o per il legante argilloso utilizzato nelle murature.

Nella roccia sono anche presenti raffigurazioni di forme falliche, che forse risalgono ad epoche successive, trovando confronti nelle culture sumere e mesopotamiche (siti di Byblos, Nemrik, Helwan e Aswad).

Ad oggi, 45 di queste pietre sono state scavate, ma vi sono indicazioni che c’è molto da scoprire. Indagini geomagnetiche indicano che ci sono centinaia di altre pietre erette, che aspettano solo di essere portate alla luce. Se Gobekli Tepe fosse semplicemente questo, sarebbe già un sito straordinario, una specie di Stonehenge turca.

Diversi fattori unici innalzano però Gobekli Tepe nella stratosfera dell’archeologia e nel regno del fantastico. Il primo è la sua età. La datazione al radiocarbonio mostra che il complesso è di almeno 12.000 anni fa, forse anche 13.000 anni.

Ciò significa che è stata costruita intorno al 10 mila a.C. Gobekli Tepe è quindi il più antico di tali siti nel mondo, con un ampio margine. E’ così antico da precedere la vita sedentaria dell’uomo, prima della ceramica, della scrittura, prima di tutto. Gobekli proviene da una parte della storia umana che è incredibilmente lontana, nel profondo passato dei cacciatori-raccoglitori.

Come poterono gli uomini delle caverne costruire qualcosa di così ambizioso? L’archeologo Klaus Schmidt, pensa che bande di cacciatori si siano riuniti sporadicamente nel sito, durante i decenni di costruzione, vivessero in tende di pelle di animali e uccidessero la selvaggina locale per nutrirsi. Le molte frecce di selce trovate presso Gobekli giocano a sostegno di questa tesi, ma sostengono anche la datazione del sito.

Questa rivelazione, che i cacciatori-raccoglitori dell’Età della Pietra potrebbero avere costruito qualcosa come Gobekli, cambia radicalmente la nostra visione del mondo, perché mostra che la vita degli antichi cacciatori-raccoglitori, in questa regione della Turchia, era di gran lunga più progredita di quanto si sia mai concepito. E’ come se divinità scese dal cielo avessero costruito Gobekli con le loro mani.

Pochi anni fa, gli archeologi rinvennero presso Cayonu un mucchio di teschi umani. Essi furono trovati sotto una lastra d’altare, tinta con sangue umano. Nessuno è sicuro, ma questa può essere la prima prova di sacrifici umani: uno dei più inspiegabili comportamenti umani, che potrebbero avere sviluppato solo di fronte ad un terribile stress sociale.

Gli esperti possono discutere sull’evidenza di Cayonu. Ma quello che nessuno nega che è il sacrificio umano abbia avuto luogo in questa regione, tra la Palestina, Israele e Canaan. L’evidenza archeologica indica che le vittime erano uccise in enormi fosse di morte, i bambini erano sepolti vivi in vasi, altri erano bruciati in grandi giare di bronzo.

Questi atti sono quasi incomprensibili, a meno che non si pensi che la gente aveva imparato a temere le divinità, perché era stata scacciata dal paradiso. Così avrebbe cercato di propiziare la collera dei cieli. Questa barbarie potrebbe, infatti, essere la chiave di soluzione di un ultimo, sconcertante mistero. I sorprendenti fregi di pietre di Gobekli Tepe si sono conservati intatti per uno strano motivo.

Molto tempo fa, il sito fu deliberatamente e sistematicamente sepolto con un colossale lavoro insieme a tutte le sue meravigliose sculture di pietra. Intorno al 8000 a.C., i creatori di Gobekli seppellirono la loro realizzazione e il loro glorioso tempio sotto migliaia di tonnellate di terra, creando le colline artificiali sulle quali il pastore curdo camminava nel 1994. Il motivo che spinse gli antichi a seppellire per sempre il tempio di Gobekli Tepe rimane a tutt’oggi un mistero. [nationalgeographic.it - centumcellae.it].

TIHUANACO

Tiahuanaco è un sito archeologico esteso su 450.000 mq. e sembra presenti le tracce di cinque città sovrapposte, più volte distrutte da terremoti. Si trova a 30 Km. dalle sponde del lago d’acqua dolce più grande del mondo: il Titicaca, lungo 222 chilometri, largo 112, situato a 3.660 metri sul livello del mare. Una striscia bianca formata dai depositi calcarei di alghe in mostra sulle rocce circostanti e la presenza di creature marine nelle sue acque - fra cui i cavallucci - testimoniano la sua appartenenza al mare.

Molti misteri e leggende circondano il lago. Si narra di dèi giunti dal cielo sulle ali d’immensi "condor"; gli Indios raccontano di quando i loro antenati volavano su grandi "piatti d’oro" mossi da vibrazioni sonore. Al suono di una tromba furono trasportate le enormi pietre usate per edificare, nell’arco di una sola notte, la città (Cieza de Leon). Singolare che il suono emesso da strumenti a fiato provocasse il crollo delle mura di un’altra città: Gerico. E strane storie riguardano una tromba, attribuita alla fanfara di Tutankamon, esposta al Museo del Cairo. Il suono dei fiati egizi, come quelli dei monaci tibetani, stando alle cronache di alcuni esploratori, spostava mastodontici blocchi di granito. Così, Tiahuanaco ci trasporta nel mondo della dea Orejona, dalla testa conica e dalle grandi orecchie, giunta sul luogo a bordo di un’astronave; un mondo surreale popolato da esseri palmati, dal sangue più scuro, dai quali dicono di discendere gli Uros.

KON TIKI VIRACHOA

Al di là delle leggende restano le ciclopiche rovine di una città portuale: cinque banchine, moli e un canale diretto verso l’entroterra; il tutto a più di 4.000 metri sul livello del mare. Nel 1967, per verificare la veridicità dei racconti dei pescatori del Titicaca, secondo i quali nei periodi di grande siccità era possibile toccare i tetti dei "palazzi sommersi" sotto le acque del lago, furono organizzate alcune spedizioni subacquee. Sul fondo, immerse nella melma, i sub videro poderose muraglie. Sotto costa rinvennero dighe, strade lastricate; blocchi squadrati combacianti fra di loro con estrema precisione che formavano una trentina di massicciate parallele, unite da una costruzione a forma di mezzaluna. Un grande porto con i suoi moli, ove potevano attraccare centinaia di navi, fra cui, forse, anche quella di un dio bianco, barbuto, giunto dal mare con una nave che "si muoveva senza far uso di remi": Kon Tiki Viracocha, raffigurato con un tridente come Nettuno. Una città costruita con pietre talmente grandi e pesanti dalle 100 alle 200 tonnellate (alcune più di 400 tonnellate), da destituire di fondamento ogni supposizione inerente il loro taglio, trasporto, nonché collocazione, visto che le cave più vicine distano ben 60 chilometri.

MISTERI INSOLUTI

Nel rileggere i resoconti dei conquistadores spagnoli ci rendiamo conto, dallo stupore che traspare, quali meraviglie contemplarono i loro occhi.

"In un titanico palazzo vi è una sala lunga 14 metri, larga sette, con grandi portali e molte finestre. Gli indigeni dicono che è il tempio di Viracocha, il creatore del mondo" (Cieza de Leon).

"Tra le costruzioni di Tiahuanaco c’è una piazza di 24 metri quadrati e su uno dei suoi lati si stende una sala coperta lunga 14 metri. La piazza e la sala consistono in un sol pezzo; si è scolpito questo capolavoro nella roccia: si scorgono qui molte statue che presentano uomini e donne in diversi atteggiamenti, sono così perfette da crederle vive". (Diego D’Alcobada)

"C’è un palazzo che è l’ottava meraviglia del mondo, con pietre lunghe 11 metri e larghe cinque, lavorate in modo da incastrarsi l’una nell’altra, senza vederne la connessione". (Jimenes de la Espada).

Sulle rovine di Tiahuanaco campeggiano figure e simboli che alimentano insoluti misteri. Nel 1920, Julio Tello scoprì dei vasi con raffigurati lama a cinque dita, vissuti, per la scienza ufficiale, in una preistoria molto remota. Sulla Porta del Sole sono raffigurati un toxodonte e un proboscidato che ricorda il "Cuvieronius", estinti entrambi 12.000 anni fa. Il Prof. Arthur Posnansky notò che due punti di osservazione nel recinto del Kalasasaya indicavano i solstizi d’inverno e d’estate e, servendosi di una tavola astronomica, dedusse che la costruzione risaliva al 15.000 a.C. Passò per eccentrico fino a quando il Dr. Ralph Muller rielaborò i calcoli e convenne che la data poteva essere il 4.000 o il 10.500 a.C.

Su questa data concordano anche Graham Hancock e l’astronomo Nel Steede.

LA CIVILTÀ DI TIAHUANACO

Il prof. Javier Escalante Moscoso, archeologo della università di S. Andrea di La Paz, nel suo libro "Arquitectura Prehispanica en los Andes Bolivianos" evidenzia l’alto grado tecnologico raggiunto dalla civiltà di Tiahuanaco.

"Il nome Puma Punku o ‘porta del leone’ venne dato al tempo coloniale quando fu trovata una scultura in pietra di un leone. Oggi la piramide Puma Punku appare come una piccola collina piatta e consiste di tre piattaforme sovrapposte le cui basi sono fatte di blocchi squadrati di rossa arenaria. In cima alla piramide una depressione quadrangolare suggerisce chiaramente il possibile sito di un tempio. Sul lato esterno della sommità c’era un edificio di dimensioni colossali, indubbiamente uno dei maggiori dell’architettura di Tiahuanaco. 

Uno studio accurato di Puma Punku mostra un eccellente esempio di complesso architettonico di magistrale progettazione. Il tempio consisteva di quattro immense piattaforme fatte di massicci lastroni di arenaria, alcuni del peso di 130 tonnellate, tenuti insieme con una speciale malta e morsetti metallici. Visibili i canaletti che mostrano l’uso di morsetti o ganasce di rame, usati come rinforzo nel punto in cui i blocchi si accostavano. È stato appurato che questi morsetti furono realizzati gettando metallo fuso nei solchi, negli incavi scavati allo scopo nei blocchi di pietra adiacenti". 

E ancora, il Moscoso: "La cultura di Tiahuanaco è indubbiamente una delle più importanti nella regione andina e la sua influenza è evidente in altri gruppi culturali posteriori. Fiorirono architettura, produzioni artistiche in ceramica, sculture e metalli preziosi. L’alto grado di perfezione raggiunto nella scienza metallurgica permise di forgiare e amalgamare metalli. Il rame, metallo principale, era usato comunemente allo stato nativo. All’inizio limitatamente alla manifattura personale e negli oggetti domestici, più tardi per ottenere il bronzo. Dato che per ricavare quest’ultimo occorre seguire una procedura complicata si dimostra l’alto grado della metallurgia raggiunto dalla cultura di Tiahuanaco".

Marcel Homet scrisse in merito all’uso di questi morsetti metallici: "Gli immensi lastroni di pietra dei templi di Tiahuanaco sono connessi, gli uni agli altri, a mezzo di arpioni metallici di cui si è trovato l’uguale in un unico posto: in Mesopotamia, nell’architettura dei palazzi Assiri". Homet fece rilevare, inoltre, che anche gli dèi della pesca erano gli stessi adorati in Mesopotamia dal 500 al 300 a.C.

Il prof. Moscoso afferma che nel Museo di Tihauanaco si troverebbero esposti molti oggetti rinvenuti fra le rovine del sito archeologico, tra cui molti morsetti metallici, dalla forma di una grossa "I", di varie misure, da 15 a 150 centimetri.

I morsetti sono costituiti da una lega formata dalla fusione di rame, ferro, silice e nickel. Quest’ultimo non si trova in Bolivia e per ottenerlo occorre un forno ad elevata temperatura. Graham Hancock scrive, nel suo "Lo Specchio del Cielo", che un esame condotto con un microscopio a scansione elettronica ha dimostrato come, in effetti, il metallo venisse versato fuso nei canaletti predisposti allo scopo. Ciò rendeva necessario l’uso di un forno portatile e quindi un livello tecnologico di gran lunga superiore a quello immaginato. Dal canto suo, il Prof. Escalante afferma: "Dal tempo antico la cultura pre-ispanica conosceva come fondere il rame e più tardi imparò a mescolarlo con altri metalli. Questo sviluppo tecnologico rese possibile l’invenzione di attrezzi di metallo quali scalpelli, stampi, punzoni, seghe, asce, ecc. permettendo di poter lavorare su pietre e altri materiali e raggiungendo un grado sofisticato di perfezione. Scavi archeologici hanno portato alla luce vestigia di attrezzi fatti di vari tipi di metallo usati per lavorare le più dure pietre e legni. Sono stati trovati anche molti aghi fini e aguzzi, usati come strumenti capaci di perforare tanto materiali duri, che eseguire delicati e rifiniti lavori. Altri attrezzi fatti di metallo o leghe erano le seghe di rame usate in congiunzione con varie sostanze abrasive per lavorare pietre e altri duri materiali".

A Ollantaytambo, in Perù, è stata trovata una pietra che appare segata o con una sega di metallo, o con una sorta di corda abrasiva o con un laser. La foto, scattata da Gene M. Phillips, è visibile sul n. 22.1 di Ancient Skies. L’uso dei morsetti si riscontra nelle pietre di Puma Punku, di Ollantytambo, di Angkor Vat e di Dendera; provando che era l’uso comune di un’antica civiltà anteriore a quelle conosciute.

IL POTERE DEI CRISTALLI DI QUARZO

Dodicimila anni fa si faceva largo uso in tutto il mondo di granito contenente cristalli di quarzo. Come gli antichi "omphalos", ombelichi, ossia pietre erette dagli Annunaki (esseri provenienti dal pianeta Nibiru, ndr.) come semplici dispositivi di comunicazione, note nei miti come "Pietre Parlanti", fatte anche di granito. Il più antico radioricevitore usava cristalli di quarzo, per cui il termine "cristallo fisso".

Oggi, in una semplicissima costruzione, i cristalli fissi sono ancora venduti in forma di corredo e svolgono benissimo la loro funzione. Furono usate pietre di granito per comunicazioni terrestri e interstellari con sistemi simili a quelli di Carnac in Britannia? Perché furono usate grandi pietre di granito nell’apice della Grande Piramide, sopra la Camera del Re, chiamate "Pietre Parlanti"? Perché oggi vengono impiegati molti cristalli, sia naturali che manufatti, in tutti i computer, nelle attrezzature elettroniche e nei satelliti?

Qualcuno è dell’opinione che le idee di Nicola Tesla, insieme agli studi dei cristalli, apriranno una nuova area di ricerca e di tecnologia. Oggi i maggiori ricercatori delle antichità non correlano i loro lavori con ciò che altri hanno trovato, con quanto hanno scritto a riguardo e, purtroppo, non esiste una forma di cooperazione.

È costume dell’attuale società indirizzare il singolo a non pensare se quanto viene attuato è davvero volto all’interesse di tutti, ma a raggiungere, nel più breve tempo possibile, una posizione dominante, nonché di un qualche, seppur piccolo beneficio, ahimé, materialistico. Ma nei testi antichi è ampiamente descritto che i cristalli sono stati usati dettagliatamente e che erano probabilmente, e lo potrebbero ancora essere, un grande potente generatore di energia, nonché radiofonico.

ANTICHI OGGETTI DA FANTASCIENZA

Non lontano da Teotihuacan si trova la piramide detta della mica, poiché al suo interno sono stati rinvenuti due strati di tale materiale di ben 27 centimetri quadrati, nascosti sotto un pavimento, evidentemente con una precisa funzione.

La mica è un miscuglio di vari elementi quali potassio, alluminio, ferro, magnesio, litio, manganese, titanio. La loro combinazione origina vari tipi di mica. Quella rinvenuta proviene dal Brasile, quindi chi ha costruito il tempio voleva proprio quel tipo. La mica è usata come isolante termico ed elettrico e come moderatore nelle reazioni nucleari. Quale era il suo effettivo uso a Teotihuacan? Quale tipo di civiltà ne aveva bisogno? Nel 1991-1993, cercatori d’oro sul piccolo fiume Narada, lato est dei monti Urali, hanno trovato insoliti oggetti per lo più lavorati a spirale.

Le loro misure variano da un massimo di cm. 3 (81/2 pollice), fino ad un incredibile mm. 0,003 (circa 1/10.000 di pollice).

Migliaia di questi inspiegabili artefatti sono stati rinvenuti in vari luoghi vicino a tre fiumi: Narada, Kozhim e Balbanyo; oltre a due più piccoli corsi d’acqua chiamati Vtvisty e Lapkhevozh, per lo più depositati fra 3 e 12 metri. Gli oggetti, a forma di spirale, sono composti da vari metalli, la maggior parte dei più grandi sono di rame, mentre i più piccoli e i piccolissimi sono di rari metalli come il tungsteno e il molibdeno. Il tungsteno ha un peso atomico alto e anche molto denso con un punto di fusione di 3410° C. (6100° F). Viene impiegato principalmente per temperare acciai speciali e in forma pura per i filamenti delle lampadine. Anche il molibdeno ha un’alta densità e un rispettabile punto di fusione di 2650° C (4740° F). Questo metallo è usato spesso per la tempra di acciai e per dare loro proprietà corrosive, con applicazioni per alcune parti di armi altamente poste sotto sforzo e per veicoli corazzati. Tali oggetti sono stati investigati dall’Accademia delle Scienze Russa di Syktyvka (capitale del Komi), di Mosca, di San Pietroburgo e altri istituti scientifici ad Helsinki, in Finlandia.

Misurazioni esatte di questi oggetti, spesso microscopici, hanno dimostrato che le dimensioni delle spirali sono le cosiddette "sezioni dorate" nei rapporti, o "proporzioni Phi". Dal tempo antico questa frazione è stata la regola "ferrea" in architettura e geometria.

La sua utilità sta nel fatto che se una certa lunghezza è divisa in due usando questo rapporto, il rapporto dell’originale lunghezza del pezzo più grande è lo stesso di quella che intercorre fra il più grande pezzo e il più piccolo. Appare da molte sottigliezze che simili oggetti sono ovviamente il prodotto di una inspiegabile e avanzata tecnologia. Rimarchevoli le loro somiglianze con elementi usati in congegni miniaturizzati nella nostra recentissima tecnologia, chiamati "nano macchine". Tale tecnologia è da noi ancora nella sua infanzia, ma alcuni ingegneri stanno pensando ad applicazioni che sembrano essere fantascienza.

L'ICONA DI UN COMPUTER

Gli scienziati immaginano di poter costruire micro sonde impiegabili in medicina, per eseguire operazioni all’interno di vasi sanguigni, non possibili con le odierne tecniche chirurgiche.

Tutti i test condotti per datare gli oggetti ritrovati danno una età variabile fra i 20.000 e i 318.000 anni, dipende dalla profondità e dalla situazione dei siti.

Ma anche si trattasse solo di 2.000 o di 20.000 anni, siamo di fronte all’inevitabile domanda: chi, fra tutti i popoli del mondo era a quel tempo capace di creare qualche oggetto di micro filigrana finissima, qualcosa che la nostra tecnologia solo adesso è in grado di acquisire? La stessa che eresse e orientò verso le stelle i templi di Angkor Vat, Giza e Tiahuanaco?

Proprio in quest’ultimo sito si trova una piramide circondata da un alone di mistero non ancora del tutto svelato: l’Akapana, della quale rimane un tumulo di terra con un cratere al centro, frutto del lavoro dei cercatori di tesori.

Originariamente al posto di quella grossa buca, a 18 metri d’altezza, si trovava un pozzo centrale a forma di croce. Secondo gli archeologi il pozzo alimentava una serie di canali interni, attraverso i quali l’acqua raggiungeva ogni livello della piramide.

Un complesso sistema di tubazioni faceva sì che l’acqua scendesse a cascata lungo tutti i gradini della costruzione.

Peter Kolosimo accennò, forse leggendo i resoconti di Homet, ad un passaggio sotterraneo ostruito dalle rovine che conduceva ad una camera sotterranea. Oggi, l’archeologo Osvaldo Rivera, dell’Istituto Boliviano di Archeologia, afferma di essere vicino all’entrata della stanza sotterranea, che sarebbe indicata sotto la figura di Viracocha scolpita sulla "Porta del Sole", un monolito di un unico blocco ritenuto da Posnansky e da Alexandr Kasanzev, la rappresentazione di un calendario ove sono segnati i solstizi.

La figura del dio poggia su una piramide a gradini al cui interno si vede, in profondità, la raffigurazione di una stanza accessibile attraverso ben otto corridoi. Secondo Hancock la figura sembra l’icona di un computer. Forse non è molto in errore. L’antica lingua Aymara possiede una struttura talmente semplice da poter essere tradotta in linguaggio informatico. Coincidenze?

Rapido il collegamento con Giza. Entrambi i siti risalgono a 12.000 anni fa e si ergono su una serie di camere sotterranee ove sembra sia custodito il messaggio di un’antica civiltà.

Le rovine sparse disordinatamente di Tiahuanaco, come se un violento terremoto le avesse scomposte, non sono sufficienti a stabilire verso quali stelle erano orientate; ma, secondo Hancock, 12.000 anni fa, contrapposta alla costellazione del Leone visibile a Giza, vi era quella dell’Acquario. Questa la si potrebbe ritrovare nei motivi acquatici del Kalasasaya, nei canali che portavano acqua alla piramide di Akapana. Forse proprio tale costruzione era la rappresentazione della costellazione in Terra. Sembra che la città un tempo risiedesse sull'odierno lago Titicaca sconvolto in passato da un cataclisma. Sono state rinvenute infatti strutture megalitiche sul fondo del lago. Forse i resti di una civiltà antica della cui esistenza raccontano gli abitanti? Essi infatti hanno come giò detto in altri post il mito del diluvio universale, mito condiviso da molte altre culture del mondo.

Infine, gli oggetti rinvenuti fra le rovine destano molte perplessità: bicchieri, tazze, cucchiai, piatti d’oro. Solo alla fine del 1.500 compaiono in Europa piatti e posate. Quale tipo di civiltà ne faceva uso a Tiahuanaco? E quando?

CONCLUSIONI

Tutte queste coincidenze e prove lasciano dunque supporre ad un origine comune delle civiltà mondiali. Le prove lasciano supporre ad una grande civiltà avanzata che risale ad una data ben precisa, il 10.500 a.c.

lunedì 29 settembre 2014

Eroi per noi... Criminali per gli altri

Tratto da un articolo Ruggero Marino

Il Regno del Terrore di Colombo, come documentato da noti storici, fu così sanguinoso, il suo lascito così indicibilmente crudele..


Perché tutt'oggi continuiamo ad onorare questo criminale? Perché a scuola e nei libri di storia viene presentato come un eroe?

STERMINI VOLUTAMENTE DIMENTICATI

Ma se ci pensate, l’intero concetto della scoperta dell’America è, beh, arrogante. Dopo tutto, i nativi americani scoprirono il Nord America circa 14.000 anni prima che Colombo fu nato!

Sorprendentemente, la prova del DNA suggerisce ora che i coraggiosi avventurieri Polinesiani navigarono con delle piroghe attraverso il Pacifico e si stabilirono in America del Sud molto prima dei Vichinghi. In secondo luogo, Colombo non era un’eroe. Quando mise piede sulla sabbia della spiaggia alle Bahamas il 12 Ottobre 1492, Cristoforo Colombo scoprì che le isole erano abitate da gente amichevole e pacifica che si chiamavano Lucayans, Taino e Arawak.

Scrivendo il suo diario, Colombo disse che erano un popolo affascinante, intelligente e gentile. Egli osservò che i gentili Arawak furono eccezionali nella loro ospitalità.

I NATIVI AMERICANI PACIFICI, SENZA PRIGIONI NE PRIGIONIERI !

”Essi si offrivano di condividere con chiunque e quando si chiedeva qualcosa non dicevano mai di no”, diceva. Gli Arawak non possedevano armi; la loro società non aveva ne prigioni, né criminali né prigionieri. Erano così di buon cuore che Colombo annotava nel suo diario che il giorno in cui la Santa Maria naufragò, gli Arawak lavorarono per ore per salvare il suo carico e il suo equipaggio.

I nativi furono così onesti che nessuna cosa sparì. Colombo fu così impressionato del duro lavoro di questi isolani gentili che confiscò immediatamente la loro terra per la Spagna e li ridusse in schiavitù per farli lavorare nelle sue brutali miniere d’oro. In soli due anni, 125.000 (la metà della popolazione), degli originali indigeni dell’isola erano morti.

Se fossi un nativo americano, vorrei segnare il 12 ottobre nel mio calendario come il giorno nero. Incredibilmente, Colombo supervisionò la vendita di ragazze native ridotte in schiavitù sessuale. Le ragazze giovani di 9 e 10 anni erano le più desiderate dagli uomini. Nel 1500 Colombo ne scrisse casualmente sul suo diario.

E disse:”Un centinaio di castellanoes sono così facilmente ottenuti per una donna come per una fattoria ed è assai universale che ci siano molti commercianti che vanno in giro in cerca di ragazze, adesso c’è la richiesta di quelle da nove a dieci anni.” Egli forzò questi pacifici nativi a lavorare nelle sue miniere d’oro fino a quando non morivano di sfinimento.

MASSACRI E VIOLENZE SENZA FINE !

Se un “Indiano” non consegnava l’intera sua quota di polvere d’oro alla scadenza data da Colombo, i soldati avrebbero tagliato le mani dell’uomo e gliele avrebbero annodate saldamente attorno al collo per divulgare il messaggio. La schiavitù era così insopportabile per questi dolci e gentili isolani che ad un certo punto 100 di loro commisero un suicidio di massa.

Nel suo secondo viaggio nel Nuovo Mondo, Colombo portò con sé cannoni e cani da attacco. Se un nativo resisteva alla schiavitù, gli si sarebbe tagliato via il naso o un orecchio. Se gli schiavi cercavano di scappare Colombo li bruciava vivi.

Altre volte mandava cani d’assalto a dar loro la caccia, e i cani strappavano via braccia e gambe dei nativi urlanti mentre essi erano ancora vivi. Se gli spagnoli si trovavano a corto di carne per nutrire i propri cani, venivano uccisi bambini Arawak e usati come cibo per cani.

Uno degli uomini di Colombo, Bartolome De Las Casas, fu così mortificato dalle brutali atrocità di Colombo contro i popoli nativi, che smise di lavorare per Colombo e diventò un sacerdote Cattolico. Egli descrisse come gli Spagnoli sotto il comando di Colombo "tagliavano le gambe dei bambini che correvano da loro, per testare l'affilatezza delle loro armi".

STERMINI DI MASSA

In un sol giorno De Las Casas fu testimone oculare di come i soldati spagnoli smembrarono, decapitarono o violentarono 3000 persone native."Tali disumanità e barbarie furono commesse ai miei occhi come nessun'altra età al confronto" scrisse De Las Casas. "I miei occhi hanno visto questi atti così estranei della natura umana che adesso Io tremo mentre scrivo."

De Las Casas trascorse il resto della sua vita nel tentativo di proteggere il popolo nativo indifeso. Ma dopo un po non vi erano rimasti più nativi da proteggere. Gli esperti concordano sul fatto che prima del 1492 la popolazione dell'isola di Hispaniola probabilmente contava oltre 3 milioni di persone. Dopo 20 anni dall'arrivo degli spagnoli essa si ridusse a solo 60.000.

Nel 1516 lo storico spagnolo Peter Martyr scrisse:"...una nave senza ne bussola, ne carta o guida, ma solo seguendo la striscia degli indiani morti che erano gettati dalle navi, poteva trovare la strada dalle Bahamas a Hispaniola."

A SCUOLA ERA UN EROE...

In realtà Colombo fu il primo mercante di schiavi delle Americhe. Quando gli schiavi indigeni morivano essi erano rimpiazzati con schiavi neri. Il figlio di Colombo diventò il primo trafficante di schivi africani nel 1505.

Sei sorpreso e non hai mai imparato nulla di tutto ciò a scuola?

Il regno del terrore di Colombo è uno dei capitoli più oscuri della nostra storia..


Progetto Atlanticus ha affrontato il discorso di Colombo anche qui

www.ufoforum.it/topic.asp?TOPIC_ID=13503

sabato 27 settembre 2014

L'Umanoide di Pretare d'Arquata - Il Caso Caponi

"L'ultima volta è successo proprio qui dietro. La prima, poco fuori il paese. Ecco, questa è l'ultima foto che ho scattato…"

Così cominciò, il 23 Ottobre 1993, la nostra prima intervista all'allora ventitreenne Filiberto Caponi (ceramista), protagonista di una sconcertante serie di incontri ravvicinati con un "essere" di sembianze non umane, corredata da una impressionante documentazione fotografica. Teatro dell'inchiesta è stato Pretare d'Arquata, un piccolo paese in provincia di Ascoli Piceno, che si inerpica su una collina, un paio di chilometri dopo aver lasciato la S.S. Salaria.

Le foto che Caponi ci mostrò, gli originali da lui scattati con una macchina Polaroid, erano e restano sconvolgenti. Mostrano, in sequenza, un esserino in diverse posizioni, ora seduto, ora quasi eretto, in condizioni fisiche penose. Sembra di piccole dimensioni, piuttosto robusto, con la pelle che in alcune istantanee appare brunita e spessa e nell'ultima completamente rossa, come insanguinata. Le foto furono pubblicate dal settimanale Visto (n.43, 28 Ottobre 1993) e poi presentate in TV durante il programma "I Fatti vostri" (Venerdì, 5 Novembre 1993) condotto da Giancarlo Magalli. 

Nel corso della nostra inchiesta e durante gli ultimi tre anni, abbiamo dovuto riconsiderare, tassello per tassello, tutta la vicenda, ricostruire i particolari, incontrando più volte Filiberto Caponi e raccogliere altre testimonianze. Non siamo ancora in grado di tirare delle conclusioni - oggi - ma ci stiamo avvicinando alla possibile realtà di quanto avvenne nei dintorni di Pretare d'Arquata (Marche), sul Monte Vettore, a partire dal Maggio 1993.

UN TESTIMONE SOTTO PRESSIONE

Per inquadrare la nostra storia dobbiamo doverosamente riferirci alla prima inchiesta condotta dagli inquirenti del CUN che, dopo vari sopralluoghi, le interviste al protagonista ed ai suoi familiari e i riscontri di altri testimoni indiretti, riportarono i risultati delle indagini in un rapporto dettagliato che consentì di tirare solo conclusioni preliminari. 

Contemporaneamente, altri ricercatori avvicinavano Caponi e da lui ottenevano dichiarazioni che, pur sostanzialmente coincidenti con quelle rilasciate al CUN, portavano a diverse interpretazioni, come quella di Massimo Fratini (CETI, Roma) sempre convinto della sincerità del testimone. Se ne desumeva comunque un quadro contrassegnato da alcune contraddizioni ed omissioni, emerse soprattutto quando alle indagini si era imposto un ritmo investigativo più serrato. Come dire che - sotto la pressione degli inquirenti, nel clima piuttosto convulso precedente alla pubblicazione delle foto sul settimanale milanese e a causa della presenza di giornalisti italiani e stranieri - la versione dei fatti riferita da Filiberto Caponi (una ricostruzione nel tempo sostanzialmente sempre coerente) purtroppo corroborava solo in parte le foto stesse. Tant'è che il capo inquirente del CUN, Roberto Pinotti richiedeva ripetutamente di visionare il materiale fotografico nella sua completezza, sia per chiarezza sia per garantire al testimone la necessaria autonomia nella gestione di materiale, in ultima analisi, quanto mai delicato. 

Prova ne sia che furono successivamente sequestrate dalla magistratura di Ascoli Piceno, con una procedura giudiziaria senza precedenti, quali elemento di prova di un possibile reato (turbativa della quiete pubblica, ecc.) a carico di Caponi.

Le fotografie, nel corso delle indagini del CUN, venivano quindi analizzate visualmente ma non strumentalmente (essendo gli originali ancora sotto sequestro giudiziale) restando pertanto in secondo piano rispetto alla verifica del racconto del testimone diretto. 

Oggi, nel ricostruire il caso di Pretare d'Arquata, presentiamo i fatti come furono raccontati da Filiberto Caponi ai nostri inquirenti, in una sintesi tratta da oltre trenta pagine di dettagliato rapporto di Gianfranco Lollino. Torniamo quindi alla prima intervista, quella del 23 Ottobre 1993, svoltasi alla presenza dei familiari di Caponi.

LA NOTTE DEL PRIMO INCONTRO

"Pensai di essermi imbattuto in un piccolo gatto che si lamentava, chiuso in una busta di plastica".

Filiberto Caponi iniziò così la descrizione (agli inquirenti del CUN Roberto Pinotti, Gianfranco Lollino e Massimo Angelucci, e Fabio Della Balda del CROVNI di San Marino) del suo primo incontro con il piccolo umanoide, un'entità isolata, da lui in seguito più volte fotografato.

"Era la sera del 9 Maggio 1993. Come sempre, rientravo da un giro in macchina e stavo chiudendo il garage, proprio all'entrata del paese, quando sentii un lamento diverso da quelli tipici degli animali. Scesi in strada pensando anche ad un ubriaco che stesse facendo versacci. Poi, in un angolo di una casa, vidi una 'palletta bianca', dalla cui direzione mi sembrò provenisse lo strano lamento. Sorridendo, pensai di aver trovato un gattino abbandonato, avvolto in una busta di plastica e stavo per toccarlo con le mani, ma mi fermai riflettendo sul fatto che avrebbe potuto graffiarmi. Perciò mi limitai a dargli un calcetto per vedere se fosse uscito da solo. E lì il mio terrore, perché la 'palletta bianca' è saltata su, mostrando di avere testa, braccia e gambe. Ridiscesa a terra, è corsa via, salendo sul muretto che vi ho mostrato prima. Comunque era molto veloce, aveva le gambe come fasciate e appresso si portava qualcosa che ballonzolava, che sembrava una sacca, che aveva sulla schiena, ma non era pelle. La pelle l'ho distinta solo dalla testa e da quelle braccette che sembrava non usare, non le muoveva".

Un'annotazione, rispetto a questo primo incontro, riguarda il fatto che Caponi riportò sul piede destro, quello con cui aveva colpito l'entità, una sorta di inspiegabile annerimento cutaneo, che sparì dopo tre giorni.

UNA GARZA IMBRATTATA DI SANGUE

Caponi pensò che si trattasse di una scimmietta, ma lo spavento era stato grande e pertanto decise di riaprire il garage e rifugiarsi un po' in macchina per riflettere, ascoltando la radio.

"Dissi fra me e me l'ho visto, ma non c'è, sarà stata la stanchezza, forse era un animale…"

Comunque, rientrato a casa, la mamma si accorse subito che qualcosa non andava, il ragazzo era cereo in viso. Venne così fuori la storia e Caponi, con il padre, decise di tornare sul posto per cercare qualche traccia dell'"animale". Sul muretto, dietro cui l'essere era scomparso, il padre rinvenne una "garza medica imbrattta di sangue" che però non portarono a casa perché era disgustosa e invece fu posta sotto una vecchia lavatrice nel cortile, contando di andare ad Ascoli Piceno per farla analizzare. Ma, nella notte, Caponi avvertì ancora lo strano lamento, scese quindi di nuovo in strada, ma non riuscì a vedere nulla.

"Niente, proprio niente, non è possibile - spiega Caponi - e mio padre si è affacciato per vedere e gli ho detto 'l'ho sentito, ma non so dov'è' e lui mi ha detto di salire su in camera sua perché da lì avremmo visto meglio. Siamo stati così un'oretta circa, poi mio padre si è stancato ed è andato di nuovo a letto. Proprio in quel momento la 'cosa' è ripassata... ho chiamato mio padre e così anche lui ha potuto vederlo, solo per un attimo, mentre entrava sotto quell'arco, come una 'scheggia' e mio padre mi ha guardato come per dire 'allora non stai scherzando!'... in ogni caso mi ha detto di andare a letto, perché era tardi (le 3 dei mattino)".

SI È VOLTATO PER GUARDARMI...

La mattina dopo la sorella di Filiberto andò a controllare la garza, ma era sparita.

"Sarà stato un cane che ha sentito l'odore del sangue - dice Filiberto - comunque è stato allora che ho deciso di farmi prestare una macchina fotografica da mio cognato. L'ho messa proprio sul comodino. Per una settimana poi mi sono appostato lì (indica il posto) di notte pensando che forse l'essere sarebbe ripassato e l'avrei fotografato".

Passarono però 15 giorni senza che accadesse nulla e Caponi aveva deciso di scordare tutto, quando una sera...

"Erano circa le due di notte e sento di nuovo 'sto strillo. Mi alzo, prendo la macchinetta fotografica (una Polaroid 660) e apro la porta - racconta il ragazzo - mentre sentivo qualcosa che scalpicciava nel brecciolino. Lo vedo arrivare, abbastanza da lontano, ad andatura non veloce, quasi camminava. Scatto una prima foto, la Polaroid esce di sotto, la tiro fuori e la butto sullo scalino, pronto a farne un'altra. Alla luce del flash si è arrestato come avesse notato la luce, ma forse è... sordo, perché ho aperto la porta facendo rumore e lui continuava a venire verso di me. 

Si è fermato e voltato solo quando ho scattato la foto. Ho pensato 'ora faccio una corsa, scatto una foto e poi scappo via, è un'occasione unica' e così ho fatto, mi sono lanciato verso di lui di un paio di metri, l'ho fotografato di nuovo e sono fuggito gridando 'l'ho fotografato', senza nemmeno guardare dove andavo, tanto che sono finito contro un muro. Mio padre sì è svegliato e mi ha chiesto cosa fosse successo. 

Le foto si erano sviluppate sotto gli occhi dei miei parenti: nella prima si vedeva solo un'ombretta che sta arrivando, ma la seconda lo mostra benissimo di schiena, fasciato con qualcosa, la testa e le braccette penzoloni. I miei sgranano gli occhi... gli spiego che quando gli ho fitto la seconda foto ha voltato leggermente la testa verso di me, senza girarsi del tutto. A mio padre si sono drizzati i capelli sulla testa. Mia madre ha detto 'Santo Dio, ma che cos'è?' E allora io li ho calmati e gli ho detto 'tanto le foto ce le abbiamo, le mettiamo al sicuro, non le facciamo vedere a nessuno' e abbiamo deciso di metterle in una scatola di legno, per studiarle con calma l'indomani".

Ma il pomeriggio successivo Caponi:

"…Trovai il coperchio della cassetta curvo, annerito sotto, affumicato. Mi chiedo cosa possa essere successo - spiega agli intervistatori del CUN - poi apro la scatoletta e sento un odore di bruciato come quella della plastica incendiata. Le foto sono attaccate fra loro e nella prima la zona dell'immagine dove si trovava l'essere è gonfia e rovinata... stacco la seconda foto e anche questa ha l'immagine gonfiata ed aperta, solo in superficie, non era bucata".

Si tenta, a questo pulito dell'intervista, di dare una spiegazione tecnica alle foto rovinate: Lollino chiede a Caponi se la pellicola fosse stata già da tempo nella macchinetta fotografica e se per caso fosse scaduta. Ma l'ipotesi di un deterioramento dovuto alla scadenza del prodotto non si rivela valida, perché con la stessa pellicola sono state scattate altre foto che non si sono rovinate. Come unica possibile spiegazione rimane una interazione chimica tra le foto e una vecchia batteria scaduta conservata nella scatola di legno insieme alle immagini, come propone lo stesso Caponi.

Il problema è che tutto il materiale, compresa la scatola di legno, Caponi sarebbe stato poi obbligato a consegnarlo ai Carabinieri della stazione di Arquata del Tronto, successivamente alla pubblicazione sul periodico già menzionato. Inoltre c'è da sottolineare che Caponi aveva fatto circolare le foto (riproduzioni in diapositiva) presso giornali romani ed agenzie di stampa.

CONFIDENZE AD UN AMICO

Torniamo al 24 Maggio 1993. La notizia si era ormai diffusa, in quanto Caponi si era confidato con un amico:

"Ho fatto un grosso errore - spiega il ragazzo - quando un giorno sono andato a trovare un amico falegname e gli ho detto tutto, lui mi ha giurato che sarebbe stato zitto, ma una sera aveva bevuto un bicchiere di troppo e nel giro di tre giorni tutto il paese sapeva della storia e addirittura telefonò il Messaggero di Ascoli Piceno, che pochi giorni dopo avrebbe pubblicato le foto bruciate. La storia si diffonde ancora di più, anche se molti non mi credono e girano leggende popolari e in paese circolano persone con macchine fotografiche, cacciatori. Una sera vado al circolo e incontro l'amico che aveva spifferato tutto; nonostante ciò ci faccio pace e ci incamminiamo fuori con altri due amici. 

Ed ecco che tutti avvertiamo lo 'strillo', che proviene da dietro il cancello di una casa che si vede in una delle foto pubblicate. Decidiamo di andare a vedere ed io inizio ad arrampicarmi, mentre un amico resta un po' indietro, un altro fa per salire anche lui ma si ferma e allora tira dei sassi in direzione del lamento, che cessa immediatamente. Torniamo al bar e viene organizzata una specie di spedizione con gli altri, in tutto 15-20 persone, qualcuno con dei coltelli - gli esaltati ci sono dappertutto - torce e macchine fotografiche. Uno ha un cane da caccia. Andiamo tutti verso il cancello. Sentiamo il lamento e il cane punta e parte, attraversa il cancello e comincia ad abbaiare, quasi stesse lottando cori qualcosa che strillava sempre di più. Poi il cane 'salta via' buttandosi giù da un muretto, cade di schiena, si rialza e scappa di nuovo nascondendosi in un angoletto. Gli altri presenti cominciano a guardarmi senza parlare. 

Però, quando propongo di accerchiare la fonte del suono per scoprire di che si tratta dicono tutti di no. 

Comunque da quel momento in paese cominciano a credermi un po' tutti e vengo intervistato da un giornalista di 'Stop', il quale però quando vede le foto bruciate non ritiene opportuno acquistarle".

Si diffonde quindi, con il tempo, la sensazione che qualcosa di strano, effettivamente, stia realmente interessando il piccolo paese. Sino all'8 Agosto, quando Pretare è oggetto di un nuovo fenomeno insolito: molte galline del paese muoiono misteriosamente, alcune subendo amputazioni di arti o della testa, ma senza i segni di morsi né di sangue. Sono state rinvenute tutte ammucchiate. Il fatto rimane inspiegato, perché è difficile che un predatore, come una volpe o una donnola, abbia fatto tanto danno da solo in una notte.

ERA ANCORA "LUI"

In sintesi, sin qui, Caponi aveva avuto due incontri con l'umanoide. Giungiamo alla notte dell'11 Agosto 1993, quando Caponi se ne stava fuori, su una panchina, a guardare le stelle cadenti.

"…erano le 5 del mattino e ad un tratto, davanti alla porta del mio laboratorio, ho visto di nuovo quella palla bianca, che si muoveva; all'inizio ho pensato che fosse il mio gatto, ma poi, osservando bene, mi sono accorto che era 'lui', seduto, che si guardava intorno. Allora sono entrato in casa, ho preso la macchinetta fotografica Polaroid e mi sono affacciato alla Finestra. Lui era ancora lì, per cui sono sceso e gli ho fatto una foto. Alla luce del flash l'essere tira indietro la testa, si alza, inclina la schiena, si incurva e appoggia la nuca sulla schiena e corre via. Allora mi dico, stavolta l'ho fotografato proprio bene, speriamo la foto non si rovini come le altre, decido di non dirlo neppure ai miei genitori e la tengo nel cassetto". 

La foto che pubblichiamo, fino ad oggi era inedita. Ricordando che le foto Polaroid, con il flash, non possono essere scattate in rapida successione, questa in particolare (da una cartuccia nuova) mostra l'esserino apparentemente ancora avvolto nel suo "involucro protettivo esterno", e parzialmente coperto da garze o bendaggi biancastri. Filiberto descrive così il rivestimento: "possono essere pantaloni, messi in maniera strana e l'essere ha una cosa come di cuoio sulle spalle, con delle striature messe a rombo".

UNA SECONDA "PELLE" PROTETTIVA

Passano nove giorni, è il 20 Agosto, un ulteriore incontro e Caponi scatta due nuove foto, sempre con la Polaroid, nonostante il settimanale "Visto" abbia scritto che sono state realizzate con una macchina professionale.

"No, sempre Polaroid, ci convivevo quasi, mentre un amico me ne aveva prestata un'altra ma gliel'ho resa senza usarla mai. Apro la finestra e lo vedo seduto al centro del cortile. Scendo e gli faccio una prima foto. Lui fai il solito movimento, gira lentamente la testa e io scatto per la seconda volta, spostandomi di lato. A questo punto lui scappa. Non sono riuscito a dirgli niente, avrei voluto. 

L'essere che era sempre apparso con delle 'garze' intorno alle gambe, qualcosa di simile a cuoio dietro la schiena, questa volta non ha più il suo involucro, appare nudo, con due tubi sul torace che sembrano muoversi leggermente sotto la pelle, come per la pressione di un liquido o di aria, o di un fluido, non so se per effetto della respirazione. I tubicini si muovevano entrambi ritmicamente. E un'altra cosa importante: sono sicuro che era bagnato, il corpo scolava acqua, gocciolava. Ma non pioveva. Dalla testa in giù, l'acqua gli passava accanto all'occhio come del sudore. Voglio sottolineare che quella sera anche mia sorella aveva udito dei rumori, sul terrazzino di casa, dove mio padre ha due bidoni in cui mette l'acqua per annaffiare i fiori. Abbiamo pensato che forse era andato a bagnarsi. 

I bidoni dovevano essere entrambi pieni, invece uno era a metà. Insomma, forse si era liberato della 'casacca', si è immerso in un bidone, si è lavato ed è saltato dal terrazzino, producendo un piccolo tonfo sentito da mia sorella. Sono sceso di sotto, per vedere se aveva lasciato la sua tuta, ma non c'era nulla. Tranne un piccolo buco, sotto casa, non più largo di 25-30 centimetri, che si apre su una stanza murata. L'ho illuminato con la torcia, ma non ho potuto vedere bene dentro".

Emerge poi un altro particolare forse di grande importanza, quando gli inquirenti chiedono a Caponi maggiori dettagli concernenti l'aspetto fisico della creatura ed il colore della sua pelle. Si ipotizza che la sua epidermide, così come appare nelle due foto che lo ritraggono seduto, sia in realtà una sorta di "tuta" che aderisce perfettamente al corpo e lo avvolge completamente. Ora alla luce di quanto visto nel film "Indipendence Day" - gli alieni vi sono rappresentati come inseriti all'interno di uno scafandro biologico che viene sezionato dal chirurgo nell'Area 51 - ci sembra una coincidenza quanto mai singolare.

La differenza, nelle foto riprese da Caponi - nell'umanoide con e senza questa specie di "protezione" - appare netta dall'ultimo scatto, in cui l'essere è in una posizione semi-eretta e presumibilmente "scarnificato".

L'ULTIMO INCONTRO
È trascorso circa un mese, arriviamo pressappoco al 20 Settembre 1996.

"Mi appostavo ormai tutte le notti - spiega il testimone - non dormivo più e tuttora ne risento. In quel caso, verso le 3 del mattino, lo vedo sotto casa. 'Stavolta, mi dico, prima di fotografarlo chiamo qualcuno. Sveglio mia nonna, che dorme nella stanza a fianco, ma dalla finestra non riesce a vederlo, nonostante fosse lì sotto. Lui era in piedi. Allora scendiamo e mia nonna finalmente lo vede in tutto il suo splendore - aveva paura perché pensava che si trattasse di un'entità maligna - e si mette a strillare, mentre tento di calmarla, io mi avvicino e lo fotografo".

Poi si ripete una scena già vista: l'essere inclina la schiena, poggia la testa e corre via, rincorso da Caponi. Anche la nonna, Perla Antonia, ha raccontato la sua esperienza, caratterizzata dal timore che l'essere potesse far del male al nipote:

"Filiberto, scappa gli ho detto - perché cominciavo ad aver paura".

"Ma - sottolinea ancora Caponi - ormai lo rincorro fino sotto l'arco, fino in campagna, quella notte pioveva, ero tutto bagnato lì, in mezzo all'erba, poi l'ho perso di vista".

Emergono altri dettagli importanti, sollecitati dalle domande dei nostri inquirenti:

"L'essere faceva rumore nel muoversi, la sua struttura dorsale è piuttosto stretta, ma di lato sembra larga, cioè praticamente il contrario di come siamo fatti noi. Sembra costruito per correre, le braccette non le usa, se le porta appresso e la sua corsa ricorda quello dello struzzo, a balzi. Le sue dimensioni? È molto piccolo, non più di 70 centimetri, sbatte i piedi per terra, sembra che pesi il doppio di quello è realmente. Ha due buchetti per il naso, ma niente orecchi".

Dunque, in sintesi, gli incontri di Filiberto Caponi con la strana creatura sono stati cinque (nel primo, del 9 Maggio non lo ha fotografato). Le foto sono state scattate il 24 Maggio (due foto), l'11 Agosto (una foto, dove è inglobato nell'involucro scuro), il 20 Agosto (due foto, in cui l'essere è a sedere) e il 20 Settembre (l'ultima, che lo ritrae "in piedi", irrorato di una sostanza sierosa o sanguigna, davanti al laboratorio).

RITRATTO DI UN "ALIENO"

Nell'intervista rilasciata agli inquirenti del CUN, Caponi ha descritto minuziosamente e a più riprese l'aspetto fisico dell'essere.

"La testa è sferica con due occhi frontali e allungati ai lati; questi ultimi sono fissi e, visti da vicino, sono simili a quelli di una mosca, a nido d'ape, come un insieme di tanti punti neri, lucidi, quasi di plastica".

Gli occhi erano ovali, spiegò ancora Caponi, e non si chiudevano, il volto "non mostrava alcun movimento, tranne quello della bocca che si apriva e chiudeva in continuazione, la bocca è umida, segno di una certa salivazione e le gengive dure, non ho visto denti, né lingua".

Durante gli incontri c'era stata sempre una discreta illuminazione stradale e si distingueva bene l'ombra proiettata dal corpicino. La testa "si girava in continuazione, ma non sembrava che guardasse soltanto me, come se stesse curiosando o se fosse in allarme".

La bocca "vista di profilo, ha una forma vagamente a becco e ricorda quella di una tartaruga. La pelle è ruvida, raggrinzita e rugosa, mentre quella della testa è completamente liscia, ma macchiata. La testa e il petto sono chiazzati di bianco e di giallo".

Passando agli arti, "le gambe sono snelle, e muscolose, con un polpaccio molto sviluppato. Nelle mani si distinguono tre dita, ma l'essere non le muove, e non muove neanche le braccia, che sono esili e vi si distingue la fibra muscolare che viene contratta nei movimenti, anche se impercettibili, perché appaiono atrofizzate Le mani sono pressoché immobili, vi si notano appena le dita, solo quando imprime un movimento alla spalla".

Il particolare che più sconcerta nella descrizione di Caponi è quello dei due piccoli "tubi" che fuoriescono dal torace del presunto alieno:

"I tubi gli escono e rientrano nella pelle - descrive Caponi - però sembrano una cosa in più, che non c'entra niente con la struttura dell'essere, quasi fossero un'aggiunta. I tubi si muovono, anche se poco, mentre la pancia sembra immobile, come se non respirasse".

Filiberto è rimasto colpito soprattutto dalle gambe: "sono la parte più forte - dice agli inquirenti - più potente, considerando il modo in cui corre. Ha due sole dita nei piedi, una leggermente più lunga dell'altra, forse il pollice. Ed infine ci sono da notare tre gobbette sul dorso, lui appoggia la nuca in corrispondenza della prima che è la più grande. Non ha mai emesso alcun suono comprensibile. Il suo verso è composto da due 'colpi secchi e precisi' alternati da un lamento regolare. Sembrava comunque interessato alla luce: nell'ultima foto l'ho preso mentre fissava il lampione, ha una reazione quasi di stupore o di piacere al flash, ho pensato quasi che a volte si mettesse 'in posa'. Un'ultima cosa, ho pensato anche di catturarlo, ma poi ho capito che era un'idea assurda".

L'intervista si conclude con delle considerazioni amare da parte di Caponi: "Quello che mi dà fastidio è che a questi fatti non venga data l'importanza che meritano, visto che se ne è parlato solo su di un giornale scandalistico. Ma è anche vero che nessuno se ne è interessato eccetto loro. Per quanto riguarda i presunti ufologi che mi hanno contattato a ripetizione, mi sono fidato di ben pochi". "Se poi - conclude - qualcuno pensa che lo stia prendendo in giro, me lo dimostri. Ora potete fare le vostre investigazioni e trarre le vostre conclusioni".

IL CASO RESTA APERTO

Come detto in apertura d'articolo, Filiberto Caponi si dimostrò con gli inquirenti CUN disponibile a raccontare la sua verità, ma si mantenne piuttosto "guardingo" probabilmente sia a causa delle pressioni che all'epoca stava ricevendo da ogni parte, sia per la fortissima tensione causata da tutto ciò in seno alla sua famiglia.

Nella sua testimonianza si palesarono delle incongruenze proprio rispetto al numero delle foto in suo possesso ed al loro rilascio in pubblico, a mezzo stampa o media televisivi. Una diffusione da cui sarebbe stato legittimo trarre dei ritorni economici. Purtroppo, pur essendo stato sconsigliato in tal senso, Filiberto non seppe gestire al meglio materiale tanto sconcertane e delicato.

Così, in seguito, a causa dei clamore suscitato dalle sue dichiarazioni in merito all'avvistamento dell"'umanoide di Pretare", Caponi venne formalmente accusato dai Carabinieri e indagato nel contesto di un sorprendente procedimento penale per direttissima per "diffusione di notizie false o esagerate tendenti a turbare l'ordine pubblico" ed il materiale fotografico gli fu confiscato, in quanto iscritto agli atti giudiziari a suo carico.

Nel Maggio del 1994 il GIP ha emesso un decreto di archiviazione sul caso che scagiona completamente l'interessato. Come giornalisti, non ci risulta che mai un procedimento giudiziario sia stato istruito su tali basi: nei confronti cioè di chi abbia contribuito unicamente a diffondere notizie, come in questo caso, certamente non lesive nei riguardi di chicchessia.

Il provvedimento giudiziario è stato preso subito dopo gli interventi di organi dì informazione francesi, tedeschi e giapponesi, con l'effetto di congelare tutta la questione. Noi abbiamo sempre cercato di capire.
E oggi, dopo il proscioglimento, quanto sappiamo ci impone ancora di più di considerare questo caso aperto, pur in assenza di segnalazioni ufologiche concomitanti accertate. Perfino dall'Inghilterra l'ufologo e scrittore Timothy Good - come ci ha confermato di persona nei giorni scorsi - è convinto della validità del caso Caponi.

venerdì 26 settembre 2014

Società Matrifocali (da un articolo di Marta Franceschini)

Tutti noi abbiamo appreso la storia delle origini dell’umanità sui banchi di scuola. uomini pelosi ricoperti di pellicce di animali e armati di clave o di lance rudimentali, dediti alla caccia. Donne accovacciate accanto al fuoco, intente a cucinare. prima nomadi, poi poco per volta stanziali, fino alla formazione di piccoli villaggi fatti di capanne, ecc. ecc. L’uomo delle caverne, appunto. Peccato che probabilmente sia tutto da rifare, o meglio da (ri)raccontare.

Per secoli infatti gli studi archeologici e preistorici sono stati monopolio esclusivo di esperti di sesso maschile, che si sono sempre trovati concordi, salvo rare eccezioni, con la medesima lettura dei reperti e la conseguente ricostruzione della realtà preistorica, relegando incongruenze e contraddizioni sotto l’ombrello degli “insondabili misteri del passato”.

matrifocale

Tutto questo fino a circa 50 anni fa, quando cioè questi illustri signori hanno cominciato ad essere affiancati dalle prime donne archeologhe, nonché antropologhe, storiche, linguiste, esperte di religioni, filosofe, ecc. Ed è così cominciata ad emergere una realtà completamente diversa.

Per esempio la presenza, anzi l’abbondanza di statuette femminili, una diversa dall’altra ma con alcune caratteristiche simili e costanti, risalenti a un periodo che va dal paleolitico medio (musteriano, 120.000/40.000 anni fa) agli ultimi millenni prima di Cristo, in tutta l’area del mediterraneo: dalla siberia all’asia, fino alla Cina e al Giappone e nel continente sud-americano. Praticamente in tutte le terre emerse. L’abbondanza di questi ritrovamenti così antichi è tale da far ipotizzare che all’epoca ci fossero più statuette che esseri umani. Tuttavia, non esiste l’equivalente rappresentazione maschile dell’umanità fino all’apogeo della cultura ellenica.

Come mai, dunque, venivano rappresentate solo le donne, e con tale impressionante dedizione? E che ruolo avevano quindi gli uomini in queste antichissime società ? Negli ultimi 30 anni sono state realizzate moltissime ricerche su questo argomento, da studiose ed esperte delle accademie di mezzo mondo. Tuttavia i risultati ottenuti hanno dovuto scontrarsi con la ferrea omertà della cultura patriarcale imperante, ben decisa a non cedere neanche di un millimetro il suo potere.

IL PATRIARCATO COME FORMA MOLTO RECENTE DI ORGANIZZAZIONE

Ma perché il patriarcato si dovrebbe sentire minacciato da simili scoperte archeologiche? Semplice: perché queste hanno dimostrato che la cultura patriarcale è relativamente recente, comincia ad emergere cioè solo intorno al 5000 a. c., e impiega poi ben tre millenni per stabilizzarsi definitivamente. In altre parole, se l’età dell’umanità fosse rappresentata dal quadrante di un orologio, il patriarcato non occuperebbe che gli ultimi cinque minuti.  Ma quello che spaventa di più, probabilmente, la mentalità’ fallocratica è che gli ultimi millenni di potere sono stati preceduti da decine di migliaia di anni di civiltà basate sulla centralità femminile.

Attenzione: non è utilizzata volutamente la parola “matriarcato” perché sarebbe fuorviante, in quanto contrapposizione di idee e principi legati al modello patriarcale. Di conseguenza, si preferisce usare l’aggettivo “matrifocale”, o “matrilineare” per definire il lunghissimo periodo in cui l’umanità è stata governata da principi femminili.

COME FUNZIONAVANO LE SOCIETA’ “MATRIFOCALI?”

Non possiamo qui riassumere in poche righe tutti i valori e le caratteristiche di queste civiltà, ma vorremmo almeno riassumerne i tratti singolari:

Nelle civiltà preistoriche femminili, anche dette civiltà antiche, non esistevano la famiglia, la proprietà privata, la gerarchia, la guerra. La divinità era femminile, identificata con la Madre Terra e la maternità in generale. Non c’era separazione tra il sacro e il profano, anzi meglio sarebbe dire che il concetto di profano era sconosciuto: tutto ciò che accadeva sulla terra era sacro, e per tanto onorato come tale.

La società era organizzata in piccoli clan che avevano come referente per tutte le questioni pubbliche e private la donna più anziana. Tutte le decisioni venivano prese collettivamente da gruppi di donne che allevavano anche i figli.

Le donne erano: sacerdotesse, guaritrici, raccoglitrici di erbe per l’alimentazione e per la cura, cuoche (ovvero chimiche che studiavano la combinazione degli alimenti), inventrici (l’ago è una delle più antiche invenzioni dell’umanità), artigiane (ovvero artiste: le anfore e i primi utensili sono tutti a forma di donna, o ispirati alle forme femminili, all’idea materna di ‘contenere, proteggere, conservare’) custodi della memoria e delle tradizioni.

LE INVENTRICI DELLA PREISTORIA

Alle donne della preistoria si devono alcune tra le più importanti invenzioni dell’umanità, tutt’oggi fondamentali per la sopravvivenza del nostra specie: l’agricoltura (furono le raccoglitrici le prime esperte di vegetazione, che capirono il rapporto tra seme e germoglio, che scoprirono come, dove e quando seminare per poter raccogliere: la marra, primo aratro della nostra civiltà, fu invenzione e strumento femminile per antonomasia); la conservazione degli alimenti (cottura, essicazione, ecc. e tutti i procedimenti per creare delle riserve di cibo); l’allevamento del bestiame (furono sempre le donne ad addomesticare i primi animali selvatici, attaccandosi i cuccioli al seno, si fecero amici i lupi, i tori, gli agnelli, ecc.); l’abbigliamento (cucendo insieme pelli di animali); il fuoco (se non abbiamo la certezza che sia stata una donna a scoprire come conservarlo, ci sono molte probabilità chi sia stata una donna a scoprire come utilizzarlo per cucinare, e di conseguenza per fondere, per rendere resistente l’argilla, ecc. Del resto, erano vestali le custodi del ‘fuoco sacro’…).

Tutto questo non è frutto della fantasia di qualche femminista invasata, bensì un brevissimo riassunto dei risultati di centinaia di ricerche serissime, scientificamente documentate e accademicamente riconosciute. (per una prima ricerca bibliografica consiglio www.universitadelledonne.it alla voce mito/religioni).

IL RUOLO DEGLI UOMINI

E gli uomini cosa facevano nel frattempo? Di sicuro cacciavano, ma anche qui, non da soli. La caccia, non potendo contare su armi elaborate, non era un’attività solitaria nella preistoria e dunque doveva per forza essere un evento collettivo, al quale con ogni probabilità partecipavano anche le donne. A riprova della presenza femminile anche nelle foreste infestate dalle fiere, le tante dee della caccia sopravvissute nelle culture patriarcali. Poi probabilmente gli uomini avevano anche altre mansioni, ma sempre in qualche modo subordinate al femminile.

Questi sistemi di civiltà matrifocali hanno cominciato a entrare in crisi intorno al 5000 a.c., secondo un’evoluzione non-lineare e un andamento a macchia di leopardo, per essere poi definitivamente soppiantati dal modello patriarcale intorno al 2000 a.c. Ci sono voluti ben 3000 anni affinché il processo di transazione si completasse, non senza rigurgiti e resistenze in alcuni casi strenue e accanite. Che cosa è successo durante quei 3000 anni, in pratica che cosa ha causato questo ribaltamento del potere, sarebbe un interessante campo di studi che certamente sarà investigato nei prossimi decenni.

IL DECLINO DELLE SOCIETA’ A MATRICE FEMMINILE

In questo caso, ci limiteremo a suggerire alcune ipotesi. Innanzitutto: se le cose stanno così, se il patriarcato cioè è stato preceduto da decine di migliaia di anni di cultura femminile, e se il potere sacro e inviolabile della Grande Madre è stato strappato con rabbia e violenza da una minoranza sottomessa e frustrata dopo alcuni millenni di lotte, questo spiegherebbe l’accanimento con cui il nuovo potere abbia sistematicamente represso e discriminato il genere femminile nei secoli successivi e fino ai nostri giorni, di come abbia ostinatamente cercato di precludergli qualunque accesso alla cultura, al sapere, al lavoro, all’arte, alla libertà di movimento e di pensiero, come abbia fatto in modo di gestirne la sessualità, appropriarsi della sua capacità riproduttiva, e sottometterlo in tutti i modi possibili e immaginabili. Francamente una determinazione altrimenti difficile da comprendere, se non con la folle e inconscia paura di riperdere ciò che era stato così faticosamente conquistato, e con la segreta e terrorizzata consapevolezza di quello che il femminile avrebbe potuto fare se fosse stato lasciato libero di muoversi e di esprimersi.

Secondariamente, sembrano anche più comprensibili le diffuse difficoltà relazionali che tutt’oggi esistono tra uomini e donne: forse sono il retaggio di quei 3000 anni di lotte feroci per il potere?

Concludiamo con una riflessione: l’avvento del patriarcato, seguito dalle tre grandi religioni monoteistiche, tra le tante conseguenze che ha avuto, ha depredato l’umanità di un aspetto fondamentale per l’equilibrio globale: la sacralià’ del principio femminile, il rispetto per quella Madre Terra da cui la nostra sopravvivenza dipende, e il riconoscimento della sua generosità. Alcuni millenni di patriarcato, sventolando la bandiera della mascolinizzazione di dio, hanno portato nel mondo guerre e distruzioni di ogni sorta, il bieco sfruttamento delle risorse, la disumanizzazione dei suoi abitanti, la perdita dei principi e della speranza. Una fine ingloriosa sembra aspettarci dietro l’angolo. Forse sarebbe il caso di riaprire le porte e i cuori alla Grande Madre, violata dagli uomini e dimenticata dalle coscienze…

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