martedì 30 aprile 2013

L'Anunnaka Pua-Bi


Tratto dal blog "Svegliati, Apri gli Occhi" http://svegliatiaprigliocchi.blogspot.it

Qualche anno fa, un video su Youtube (poi moltiplicatosi esponenzialmente nella rete in molteplici spezzoni e video correlati o aggiunti), comparve un documento filmato di straordinaria importanza, o forse a detta di alcuni, una grande presa in giro ben congeniata; sto per parlarvi del video della presunta extraterrestre congelata, ritrovata dalla missione Apollo 20, una missione segreta, e presumibilmente congiunta tra USA ed URSS sulla Luna, per il recupero di un corpo alieno, l’ ormai famigerata aliena Monalisa; in oltre parlero anche della sacerdotessa regina Puabi e del confronto che porterebbe Sitchin a sostenere che siano della stessa specie o razza.


Ringrazio il mio carissimo amico fraterno Massimiliano, il quale mi ha riportato all’attenzione questa vicenda, e mi ha fatto involontariamente ricordare un particolare, di cui il compianto Zacharia Sitchin, ci aveva abbondantemente parlato, e che probabilmente era collegato proprio a Monalisa. Massimiliano mi ha fatto vedere un illustrazione che si presume sia stata fatta proprio da Sitchin, in cui si confronta proprio Monalisa con un importante sacerdotessa semi dea dell’antica Mesopotamia, ovvero una sacerdotessa Sumera, di cui il nostro compianto scrittore Sumerologo, ci ha abbondantemente illustrato la genesi e l’evoluzione di questo  popolo, manipolato geneticamente per creare una razza superiore di schiavi. In effetti la sacerdotessa in questione che si chiama Puabi (molto studiata sia da scienziati che da storici ed archeologi), ha delle sorprendenti anomalie fisiologiche rispetto ad i popoli dell’epoca, che sono riscontrabili in alcune caratteristiche (in particolar modo nei tratti somatici generali) all’aliena lunare Monalisa.

Immagine di confronto elaborata da Alessandro Demontis, al confronto da sinistra verso destra Monalisa e Puabi

Per prima cosa mi sembra doveroso sottolineare che Zacharia Sitchin, ha speso pagine dei suoi libri e pagine di appunti su questo argomento, spesso parlandone ancor meglio direttamente a convegni e nelle interviste. Sitchin era fermamente convinto che Puabi la cui tomba è per ora tra le più studiate ed integre al mondo, non fosse una semplice sacerdotessa, ma che venisse da altri luoghi lontani, unica cosa che poteva spiegare le diversità fisiche con le popolazioni locali. E’ sorprendente poi il collegamento (ovvio per chi conosceva i suoi pensieri), che il nostro grandissimo ricercatore e scrittore supponeva sulla sacerdotessa in questione, basandosi appunto sulle sue teorie dell’origine Sumera, infatti, non ci sono mai stati dubbi (per Sitchin), sul fatto che Puabi in realtà era una gran sacerdotessa che non aveva caratteristiche comuni, e per lui si trattava chiaramente di una dea di carne ed ossa, per nulla, o solo parzialmente umana, sostenendo a spada tratta alla scettica comunità accademica degli archeologi, che la sacerdotessa se analizzata come di dovere (a livello di DNA), ci avrebbe mostrato la sua vera natura extraterrestre.

Le fondamentali differenze tra Puabi ed il suo popolo, consistono per prima cosa nella sua altezza eccessivamente maggiore dei più alti mesopotamici dell’epoca, in secondo luogo, della forma del suo viso, e dalla longilineità del suo corpo slanciato. Ciò che Sitchin ha sempre sottolineato senza mai direttamente sbilanciarsi, è proprio che la sacerdotessa  fosse un Annunaki, o un ibrido umano/alieno, proprio uno di quei figli degli Annunaki di cui si parla anche nella Bibbia, dove gli Annunaki sono chiamati Nephilim, e i giganti sono i loro figli, nati proprio dal seme dei Nephilim e dalle donne umane; quindi parliamo di un ibrido tra l’uomo e i visitatori di Nibiru.

Puabi o meglio Pu-Abi in lingua accadica, Shubad in sumero, è il nome di una regina sacerdotessa della Mesopotamia, di epoca sumera, si suppone vissuta tra il 2600 a.c. e il 2500 a.c., Puabi e la sua tomba si trovano nell’antica Ur seconda città in grandezza di Babilonia dopo l’omonima città, in alcuni sigilli reali essa viene però chiamata Nin. In effetti suppongo che Nin fosse il vero nome di Puabi, quindi il nome con cui era conosciuta da regina ed ancora prima di divenirlo , mentre Pu-Abi che significa (Parola di mio padre in accadico) potrebbe essere il nome del suo ruolo, quindi il nome da sacerdotessa, probabilmente professante la parola di un solo Dio.

Ur, enorme città Babilonese, e prima ancora importante insediamento sumero, ricopre il ruolo di città santa in tutta o quasi la storia mesopotamica, essa infatti è la sede dei principali culti, e dei sacerdoti che le professavano.

Ziggurat di Ur (attuale Nassiria)

Ur è anche conosciuta secondo le teorie di confine, come principale insediamento degli Annunaki, che in questa sede oltre ad un importante centro di comando, avrebbero avuto lo spazioporto principale della loro colonia terrestre. Ovvio, che ufficialmente non esistono prove di questo, o almeno noi non le conosciamo, però, è importante nel nostro caso, perché ci potrebbe aiutare come trampolino di lancio (scusate la sottile battutina), proprio per il confronto tra la nostra presunta Annunaki “Pu-Abi” con la nostra presunta aliena lunare Monalisa.

Monalisa, verrebbe ritrovata, e poi recuperata, dentro il relitto di una di tre astronavi precipitate nello stesso posto sulla Luna, le fattezze dell’aliena, ricordano vagamente quelle di una donna indiana,  con componenti fisiologiche proprie invece alle popolazioni del sud America; il colore della pelle è simile a quello dei messicani (ma ovviamente adesso è arrossata e alterata per via della surgelazione e della sua mummificazione), le labbra carnose ci ricordano proprio le labbra delle donne dei grandi popoli Meso e sud Americani, gli occhi hanno molto in comune sia con i popoli più scuri delle indie, che con quelli di Aztechi e Incas la fronte ampia e tonda sono tipici delle Americhe, così come il corpo robusto e gli zigomi prominenti.

La nostra Monalisa avrebbe un terzo occhio, o meglio nella fronte una sporgenza riconducibile ad un enorme sviluppo della ghiandola pineale, ed al fulcro del Chakra frontale o appunto terzo occhio.

La foto lunare con l'astronave madre crashata

Monalisa è uno dei due corpi presumibilmente trovati, l’latro, doveva essere un corpo maschile, ma le sue condizioni erano terribilmente irrimediabili e poco consone per capire qualcosa della loro fisiologia. Essa sarebbe stata raccolta da questa missione segreta (apollo 20), dentro un vero e proprio disco volante; quest’ultimo, gemello di una altro anch’esso precipitato al suolo vicino ad una astronave madre. Questa astronave madre, a detta di esperti di analisi video, sarebbe lunga addirittura km, e sembrerebbe non solo deteriorata dai presunti milioni di anni, ma colpita innumerevoli volte da armi potentissime, che avrebbero lasciato aperture dello scafo addirittura di centinai di metri.

Su tutte le cose che riguardano la vicenda di Monalisa e la presunta missione spaziale umana sulla Luna, possiamo solo fare supposizioni, e forse non saremo mai informati veramente ed in grado di trarre conclusioni corrette. Ma Massimiliano da ricerche personali, mi ha fatto sapere, che da confronti accurati sulla strumentazione di bordo visibile nelle immagini interne alla navetta di recupero, usata dalla presunta missione Apollo 20 del video, coincidono perfettamente con la strumentazione reale del LEM (modulo di atterraggio lunare). Pertanto effettivamente, potremmo anche dire che il video sarebbe veritiero, se pur magari alterato in alcuni punti per via di un taglia e copia o un copia ed incolla, a volte poco raffinato.

Per chi ha un poco di esperienza nell’analisi di foto e video, sarà facile riflettere su un fattore determinante, in linea di massima infatti, un video non può essere valutato e dichiarato vero o falso, solo perché alcune ombre o luci o anomalie sembrano falsificare alcuni frame, poiché se pur un video sia stato girato tutto di seguito, potrebbe anche essere stato manipolato senza fini di inganno, col solo scopo di montare immagini consone alla migliore comprensione delle stesse; queste, fuori sequenza e inserite magari non propriamente bene nel contesto, fanno per tanto apparire delle anomalie del video, come in questo caso, in cui i frame sembrano ricondurre ad alcune foto della presunta astronave madre, foto tra l’altro in bianconero, rincollate per far sembrare una ripresa lunare di un modulo in orbita; in effetti la cosa risulta poco chiara, e la sua falsificazione metterebbe di sicuro a repentaglio la credibilità dell’intero video; ma è anche vero, che magari in mancanza di video riprese dell’accaduto, ma con foto ben fatte in mano, l’autore del montaggio video e sedicente astronauta della missione stessa, avrebbe benissimo potuto usare le foto per ricreare l’atmosfera da lui vissuta ed i luoghi ed oggetti visti, e far notare proprio quei particolari che non sarebbero altrimenti

Abbiamo parlato di Puabi, ed abbiamo parlato dettagliatamente anche di Monalisa, abbiamo accennato anche a diverse altre cose importanti che le collegano tra esse, senza però confrontarle mai direttamente, ho tralasciato momentaneamente il confronto, e parlato della missione, del video, delle astronavi ecc. per un motivo preciso; se Puabi, era un Annunaki, e secondo Zacharia Sitchin lo era di sicuro, le sue fattezze sono simili a quelle di Monalisa e ci da un immagine di confronto tra esse, se riflettiamo anche sul fatto che essa viveva ad Ur, e la sua vita fu più lunga della media del suo popolo (e pare pure di parecchio), e che Ur era una città “spazioporto”, e se le astronavi precipitate sulla luna dove si presume sia stata recuperata Monalisa fossero tutte cose collegate?! Se ci fosse stata una battaglia tra gli Annunaki e qualcun altro sopra le nostre teste? Se coloro che rimasero sulla Terra si ribellarono a coloro che scendevano da Nibiru e si fossero fatti guerra coinvolgendo l’umanità? Non dimentichiamo che esistono inspiegabili tracce di esplosioni nucleari e cristallizzazione di materiali solidi in giro per tutto il mondo, e vi inserisco anche il contesto degli OOPART’S (oggetti che non dovrebbero esistere, e che non hanno una corretta collocazione storica secondo i canoni comuni dell’archeologia), questi spesso hanno centinai di migliaia di anni ed in alcuni casi parecchi milioni di anni, potremmo anche inserirci le presunte costruzioni sulla Luna e tanto altro ancora.

Quindi per concludere, secondo Sitchin, e secondo i modesti pareri miei e di Massimiliano, Puabi e Monalisa sono entrambe presumibilmente della stessa specie, che il caso dell’apollo 20 ed il recupero dell’aliena siano presumibilmente veri, che il video sia vero ma foto montato in alcune parti, che i Sumeri  fossero adoratori di probabili extraterrestri, e che la sacerdotessa regina Puabi fosse una di loro, forse l’ultima di loro o forse una figlia di uno importante di loro.

lunedì 29 aprile 2013

l'Abate Henry Boudet

La Vraie Langue Celtique scritta dall’abate Henry Boudet (Quillan 1837-Axat 1915) è a parere di molti esperti, un’opera estremamente assurda. L’autore, come si è già accennato, propone uno studio ragionato sulla lingua celtica e i suoi collegamenti con la storia locale e i menhir disseminati sulle colline attorno al paese.


La prima stranezza la si trova già sulla copertina. Viene indicato come editore un certo Fancois Pomies con tanto di indirizzo. Il problema è che nel 1886 data della pubblicazione, non c’era nessun Pomies. L’editore suddetto, infatti, aveva cessato l’attività sei anni prima, nel 1880 data nella quale Boudet aveva già consegnato il suo manoscritto.

In realtà, il libro sarà pubblicato da Victor Louis Bonnafous, subentrato a Pomies nella sua stessa sede. Perché Bonnafous pubblica l’opera con il nome di un altro editore tra l’altro scomparso? La tiratura complessiva, sarà di 500 copie, delle quali soltanto 398 saranno vendute; le altre verranno donate alle biblioteche, alle ambasciate e a vari istituti di cultura alici e religiosi, altre saranno regalate ai turisti delle terme. Il parroco aveva interamente finanziato l’edizione rimettendoci parecchio denaro.[1]

Oggi di quelle 398 copie, non rimane quasi traccia. I pochissimi esemplari rimasti alimentano un mercato di edizioni più o meno legali. Gli esemplari donati alle biblioteche pubbliche, sono spariti e in alcuni casi si è giunti addirittura al sabotaggio per impossessarsene. Alla Biblioteque Nationelle di Parigi, qualcuno lo ha preso in lettura con lo scopo i tagliarne le pagine, lasciando soltanto la copertina per ingannare i bibliotecari sostituendolo con il romanzo Le cochon d’or. Rimane la copia depositata presso la biblioteca di Carcassonne che, però, è così in pessimo stato che non viene dato più in lettura. Cosa c’è di così importante in questo testo? Abbiamo accennato come sembra che, Boudet volesse evidenziare la pagina 11 o addirittura le osservazioni preliminari.[2]

L’undicesima pagina della Vraie Langue Celtique,contiene un affermazione foriera di significati interessanti. Proprio in questa pagina che Boudet semina indizi rivelatori, contenuti in particolare in due affermazioni: la prima riguarda la convinzione che un giorno, la lingua sanscrita darà la chiave della lingua celtica, fino a credere che i Celti siano venuti dall’Asia, culla del genere umano. La seconda, sostiene che, mentre gli altri popoli dell’antichità ci hanno lasciato degli scritti, presso i Celti questo non è avvenuto. Per scoprire qualcosa, bisogna studiare i nomi propri di persona ed i luoghi usando il linguaggio dei tectosagi per spiegare i significati dei monumenti megalitici.

Dato che Boudet sembra volerci invitare a cercare qualcosa spingendoci a decifrare i suoi indizi ciò che dobbiamo cercare è il significato nascosto delle informazioni che ci fornisce.  E i due concetti si rivelano molto illuminanti.  Secondo alcune teorie, infatti, i Celti popolo indoeuropeo, arriverebbero proprio dall’Asia[3] e la loro religione e cultura avrebbe punti in comune con l’India. L’Asia era la culla della civiltà. Guarda caso proprio l’Asia è la sede della leggendaria città di Agharti dove si narra, vengano custodite tutte le conoscenze occulte, le leggi divine e i principi della geometria sacra (che tanta importanza riveste proprio nell’Aude) in sostanza il patrimonio culturale di tutta l’umanità. Non solo. Si narra che questa misteriosa città sorga sul principale incornicio delle correnti terrestri o forse è addirittura il centro sacro di questo regno sotterraneo a generare questi fiumi di energie.

Queste linee le famose Ley lines, percorrono tutto il pianeta e si diffondono in superficie irraggiate dai megaliti. Proprio i megaliti di cui parla Boudet uniche testimonianze rimaste delle antiche popolazioni che diventerebbero così dei veri e propri manuali di scienze arcane assumendo l’aspetto di antenne o generatori di energie naturali ma dimenticate. I Celti sarebbero i custodi di queste antiche conoscenze scientifiche in cui la geometria sacra rivestiva un’importanza notevole.

Agharti, secondo molti esoteristi tra cui Helena Blavataski, sorgerebbe sull’isola del Mar del Gobi dove in tempi remoti erano atterrati i semidei provenienti da Venere, i signori della fiamma, paragonabili ai Tuatha de Danaan, il mitico popolo che portò agli uomini la religione, la scienza, l’agricoltura insomma la civiltà stessa. Inoltre il nome Tuatha è simile a Tiuth dio dell’iperborea (estremo nord), signore della Stella Polare ed e dell’Isola di Thule che secondo il Guenon[4] rappresenta solo un nome diverso per una medesima tradizione. Tutte queste memorie si riferiscono a un unico archetipo quello della città sacra per eccellenza o della patria perduta forse in seguito di un tremendo cataclisma le cui conoscenze vennero salvate da un gruppi di saggi. Conoscenze che si riferivano non tanto alla magia così come volgarmente la si intende, ma all’agricoltura, alla scienza, alla matematica, alla geometria ed all’astronomia. Ricordo di Altlantide forse?


Boudet come si può notare, era tutto tranne un pazzo stravagante, ma era uomo di vasta cultura la cui opera aveva un fine più profondo: inscenare un percorso iniziatico, un pellegrinaggio sacro attraverso le più pure e profonde conoscenze culturali ed esoteriche. Qual è il premio finale? Forse è proprio il Graal quella splendente Verità che trasmuta….

Continuiamo ad analizzare con attenzione la sua opera, poiché solo una lettura minuziosa può evidenziare gli aspetti più intriganti che potrebbero sfuggire ad una lettura superficiale. Inutile dire come questi sono indispensabili per comprendere le finalità del parroco. E’ Boudet stesso che ci mette sulla giusta strada invitando il lettore a decodificare la sua opera trasformando il nonsenso in un’affermazione dotata di significato. Ad esempio a pagina 126, Boudet si vanta di parlare un certo  linguaggio in codice. E come in ogni codice esiste una chiave di lettura. Come trovare la chiave giusta? Innanzitutto armarsi di una solida conoscenza esoterica, alchemica e cabalistica, nonché possedere i fondamenti delle dottrine ermetiche e gnostiche. Ma non solo. Se si consulta l’indice de libro, il terzo capitolo è dedicato alla lingua punica. Boudet stesso sottolinea come la suddetta lingua "Con i suoi giochi di parole, sapeva creare i nomi propri di persona. I nomi comuni offrono pure delle combinazioni simili e rappresentano con numerosi monosillabi associati, delle frasi intere con un senso rigoroso e preciso"[5]

La lingua punica di cui Boudet parla, non è però quella in uso a Cartagine ma è la traslitterazione di “pun” termine inglese che significa “gioco di parole”. La chiave suggerita è, quindi, di tipo fonetico basata sull’omofonia, cioè il mascheramento di un termine con un altro.[6] Le traduzioni arbitrarie che riempiono il libro, servono per nascondere precise parole francesi che, messe insieme, costituiscono una sorta di secondo testo, probabilmente fondamentale per la ricerca del tesoro.

Secondo il parere di Giorgio Baietti,[7] a pagina 120 a pagina 126, è descritto con precisione un percorso, mascherando ad esempio, le informazioni, con un discorso sui mesi e le stagioni dell’anno. In realtà, sono delineati dei punti precisi del territorio associati ad una specie di codice segreto. Al termine del libro è riportata una cartina molto dettagliata della zona, disegnata dal fratello di Boudet, Edmund. La carta (scala 1:50.000) ha come titolo Rennes Celtique e riporta le indicazioni per individuare i menhir eretti, quelli abbattuti,incise sulle rocce, i dolmen e le croci greche. Quel che più interessa di questa cartina, però, è l’accurata descrizione dei luoghi del presunto Cromlech che Boudet analizza nel libro tra cui Blanchefort, Cardou, Bazel , Cap de L’ Homme, Roko Negro, l’Homme Mort.

Tanta meticolosità, però, non è accompagnata dall’esattezza. Le altezze delle montagne, sono quasi tutte errate e il fatto è strano poiché i fratelli Boudet, avevano a disposizione la Carta dello Stato Maggiore dell’Esercito, da dove potevano copiare comodamente tutti i dati.

Secondo Giorgio Baietti,[8] applicando la lingua punica ai numeri si ottengono i seguenti calcoli:

Sebairou 514 (5+1+4=10)
Blanchefort 544 (5+4+4=13)
Bazel 564 (5+6+4=15)
Cardou 796 (7+9+6=22)

Cosa possono significare questi numeri? Proviamo ad aiutarci con la cabala.

Il numero 10 corrisponderebbe alla lettera Yod. Questa rappresenta la creazione, l’essenza delle cose, il divino l’unico che porta ad una crescita verso l’alto. Può indicare potere e possesso.

Il 13 è legato alla lettera Mem che rappresenta il rivelato e il Nascosto, quella parte delle regole celesti, nascoste all’uomo. Inoltre è il simbolo alchemico di trasformazione, legato all’essenza femminile di Dio: ossia il Graal.

Il numero 15 è legato alla lettera Samech. Rappresenta il luogo della presenza divina, sostegno, protezione e memoria. L’anima come il crogiuolo alchemico può trasformare le forze ostili in energie creative, soltanto riconoscendole. Può indicare anche la falsità e il mondo materiale.

Il numero 22 corrisponde alla lettera Tau. Questa rappresenta la Verità e la perfezione, l’uomo vicino agli Dei, la sapienza totale, l’uomo che sa vedere oltre e che non vive più nel mondo umano. E’ la ricompensa finale, la chiave generale di tutto.

Così considerati, questi numeri alludono al processo mediante il quale l’uomo può appropriarsi delle leggi nascoste o di un qualcosa di rivelato che contiene in se la presenza divina o la memoria di una verità perduta? Se così fosse, questa verità è collegata alle leggi divine o in un luogo in cui esse sono conservate, una sorta di tabernacolo dove la presenza di Dio è fonte di Verità, la porta verso la perfezione. Il divino, ossia leggi sacre, comportano una trasformazione, una vera e propria morte iniziatica mediante la quale è possibile l’abbandono del vecchio.

Solo così è possibile la rinascita rappresentata perfettamente dal simbolo del Graal (l’elemento femminile, la gnosi). A cosa si muore? Alla materia, alla sua falsità. Solo così, si possono ottenere le chiavi per accedere alla vera ricompensa dell’uomo: l’immortalità. Se si collegano queste scoperte con le considerazioni iniziali, il quadro appare più chiaro. Basta unire i risultati ottenuti dalla cabala con le affermazioni di pagina 11 e delle osservazioni preliminari. Ci si trova di fronte ad una scoperta importante: Boudet intende parlare di alcune conoscenze che permetterebbero un’unione con il divino.

Sembra quasi che Boudet alluda a un preciso significato ed utilizzo dei monumenti megalitici e dei luoghi sacri dei Celti. Quella è la loro scrittura, la loro eredità e lì si celano le conoscenze che stiamo cercando. Il numero 22, inoltre, attira l’attenzione poiché compare sempre in tutto ciò che riguarda Rennes. E’ collegato al monte Cardou uno dei punti più significativi del Cromlech che, secondo alcuni, conterrebbe il più grande segreto del mondo: la tomba di Gesù. E’ questa la Verità nascosta? La conoscenza tanto protetta? Forse l’uomo non ha bisogno di essere redento poiché dentro di se contiene già la redenzione come ci ha dimostrato Gesù, l’uomo che è riuscito a diventare Dio? La verità è che l’uomo contiene in se in embrione la divinità assopita e ha bisogno soltanto del potere della gnosi, dell’energia cristica per liberarla?

Ma adesso entriamo in un campo veramente proibito, il campo dello gnosticismo……

Poniamo l’attenzione su un altro elemento: il ricorso al codice. Se Boudet usa un codice, ciò significa che il suo messaggio può essere pericoloso e dirompente. Soltanto se si è in presenza di informazioni esplosive, che pertanto rischiano di mettere in discussione l’assetto sociale, politico e religioso si cerca di proteggerle anzi di nasconderle. Ma è altrettanto importante cercare un modo per tramandarle poiché soltanto le Verità alternative sono un’arma necessaria ed efficace contro il ristagno della civiltà e dell’uomo. Ed ecco, dunque, che si ricorre al codice mezzo idoneo a tramandarle a chi sarà dotato della chiave di interpretazione giusta ossia gli iniziati, i degni e i puri. Non so se appartengo a quella cerchia, probabilmente no, ma proverò ad usare la chiave che ho trovato. Vediamo.

Abbiamo accennato che il messaggio di Boudet si potrebbe riferire ad un percorso di redenzione e di rinascita. Ma abbiamo altresì accennato come questo percorso sia proibito e pertanto non appartenga alla via quella ufficiale cattolica. Forse si suggerisce che la redenzione si può trovare anche e non solo fuori dalla chiesa. Approfondiamo. Boudet grazie alle sue teorie linguistiche si spinge persino a reinterpretare i testi della Bibbia tanto che, il tetragramma sacro JHWH, secondo lui, deriverebbe dai pronomi personali inglesi I HE WE YE.

Assurdo.

Ma abbiamo anche affermato che dietro all’assurdità, al nonsenso, esiste una sorta di sotto testo. Cosa ci dice questa affermazione dunque? Forse che l’immagine di Jahvè è una costruzione umana? Che si tratti di un Dio personale? Secondo alcune teorie[9], infatti, la figura di Jahvè deriverebbe da un Dio personale che proteggeva la famiglia di Abramo ed era un dio minore delle tempeste e degli eserciti. Jahvè, colui che è, è un Dio delle forme, un dio forgiato dalle necessità degli uomini che tutela gli aspetti limitanti della materia.  Ciò equivale a dire che rappresentare la divinità è una nostra costruzione mentale. E, infatti, Jahvè, è un dio fin troppo umano, dotato di tutti gli attributi umani quali potere, misericordia, arroganza e ira.

Anche Abele fa la stessa fine. Il nome del figlio di Adamo deriverebbe da to ape, ossia presentare l’immagine e hell inferno. In pratica, il suo nome significherebbe presentare l’immagine dell’inferno. Dopo quest’affermazione apparentemente incomprensibile, Boudet torna a parlare con tono normale, rientrando nei canoni dell’ortodossia cattolica.

Rimane questo strano accenno, un sasso gettato quasi a caso nel tranquillo stagno dell’ortodossia che, però, crea curiosi ed inquietanti movimenti….

Se come molti affermano, Boudet fu un semplice ed innocuo curato di campagna, mentalmente chiuso perché inserire questa traduzione in un contesto che mirerebbe a presentare una teoria storica senza per nulla cercare di intaccare la Santa Madre Chiesa? Perché inserire una frase che palesemente stona con l’apparente ortodossia del discorso? Forse non stona affatto, invece. Dubito fortemente che per sostenere le sue tesi linguistiche fosse indispensabile accennare ad una simile traduzione del nome di Abele. Abele è il prototipo della vittima, del giusto. Inoltre oramai ci è chiaro che dietro ogni frase non importa quando sconnessa o stravagante si celi un significato preciso.  Boudet sa benissimo cosa vuole comunicare, eppure accenna per poi smentire, suggerisce per poi negare. Dire e non dire: non è forse il modo migliore per comunicare una conoscenza proibita?

Chi ha orecchie per intendere intenda. E inserire una frase dissonante, in un discorso innocuo e religiosamente timorato, non è un modo per evidenziare l’affermazione stessa? Ciò è stato deliberatamente fatto per sottolineare ancor di più l’occulto messaggio che si cela nella spiegazione del suo nome. Ed è su di Abele presentato come immagine dell’inferno che si concentra volente o nolente, l’attenzione. Ed è proprio quell’immagine che spezza la logica narrazione dei fatti, fino a trasformare il nostro abituale stato cognitivo, offrendo la possibilità di utilizzare un altro schema mentale per osservare, forse per la prima volta, l’altra faccia della medaglia. Vive lì estraneo al resto dei commenti, ed in quella sua alterità che si trova il suo terribile potere distruttivo. Un’ombra ghignante che offusca la tranquilla armonia del paesaggio……

Credo che quello proposto da Boudet sia un messaggio altamente e deliziosamente eretico, qualcosa che può essere comunicato pertanto solo in modo nascosto. Dietro l’apparente ortodossia di Boudet, così come di Saunniere, vi è una sorta di marchio che appartiene all’anima stessa della Linguadoca: il marchio di Caino.

E il marchio di Caino fa parte della tradizione gnostica.

Scrive Filippo Goti:

Colui che si cimenta nello studio dei testi gnostici, si può imbattere in una singolare inversione di ruoli, qualità e attribuzioni che colpiscono in maniera inesorabile, protagonisti, comparse, e divinità dell’antico testamento…l’impressione che il lettore poco accorto potrebbe ricevere è quella di essere dinnanzi ad un qualche gioco di specchi, intento a rovesciare le Verità in cui da sempre crede[10].

Ed è proprio questa l’impressione che si ricava leggendo quel passo di Boudet. Boudet, infatti, non fa altro che citare in modo sfuggente ma deciso, la tradizione gnostica, il modo in cui lo gnostico interpreta la creazione. E lo gnosticismo nella forma del catarismo domina, volente o nolente, la regione dell’Aude.

Per lo gnostico, la creazione non è il dono benigno di un Dio amorevole e saggio, bensì opera di un dio minore, arrogante e cieco: il demiurgo. L’uomo, creatura spirituale, in origine un angelo a forma e somiglianza del vero Dio, viene imprigionato nel corpo materiale da questo demiurgo, geloso di tanta perfezione. Il cosmo è frutto di un atto che, nel tentativo di ribadire il potere del demiurgo, tenta di parodiare la perfezione dell’ordine superiore. Per lo gnostico l’uomo non è padrone della creazione ma prigioniero e schiavo della materia, costretto ad ignorare la sua vera origine. Ed è questo modo di concepire il mondo come prigione che investe i personaggi della Genesi.

Le narrazioni celebrative dell’atto creativo diventano, di riflesso, il verbo dell’avversario e chi si ribella al demiurgo (il dio creatore) viene innalzato a simbolo della verità che trionfa. Di conseguenza, i servi di dio, i giusti, diventano servi del male, immagini dell’inferno. Tra i pneumatici (i consapevoli dello spirito) che coraggiosamente si ribellano all’asservimento degli arconti ( i dominatori del mondo materiale), un posto speciale è riservato proprio a Caino, tanto che, da lui prese nome la comunità gnostica del II secolo (i cosiddetti cainiti). Caino e Abele, i figli di Eva e Adamo, tratteggiano i due mondi opposti della materia (Abele) e dello spirito (Caino). Due mondi che, pur interagendo, per la loro natura opposta si combattono e si annullano. La verità, la Gnosi, comporta l’allontanamento dalla carnalità, rappresentata dai sacrifici cruenti, simbolo delle emozioni basse di cui si nutre proprio la materia. Caino si presenta come la natura superiore dell’uomo, quell’angelo incarnato, legato all’armonia dei cicli naturali, visti come mezzo per incorporare e comprendere l’armonia del cosmo stesso quindi di Dio, mentre Abele diventa la natura inferiore, asservita alla materia, a quegli istinti aggressivi e compulsivi che legano sempre più l’uomo impedendogli l’ascesa verso lo spirito. Può lo gnostico accettare come Signore supremo, un’entità che pretende sangue dai suoi seguaci?

Che: si riconosce in un popolo che, come rito di iniziazione, di appartenenza e di riconoscimento, necessita di sangue versato dall’organo sessuale di un bimbo, incosciente di quanto accade?[11]

Scontro di mondi, scontro tra culture, tra una fondamentalmente semita legata al sacrificio di animali al rito della circoncisione e la presenza di un’altra, legata a riti di diversa elevazione spirituale, estranea ai culti carnali del sangue e del sacrificio. E’ grazie all’omicidio di Caino, visto in chiave simbolica e iniziatica, la natura superiore, quella spirituale, trionfa sulla seconda, quella bassa, materiale, attirandosi però le ire delle potenze arcontiche, quelle che costantemente lavorano affinché l’uomo rimanga legato a questo mondo. Perciò Caino, l’emblema dell’uomo gnostico, nato da quello che, apparentemente appare come una trasgressione alla legge, è diverso fra i suoi simili, poiché trasgredendo la legge del Demiurgo, vive non grazie ai suoi sensi materiali, ma attraverso il marchio della gnosi, il segno di Caino.

Boudet era uno gnostico? Sicuramente da uomo colto quale era, conosceva le dottrine religiose gnostiche, tanto più che queste, lo ripeto, appartenevano di diritto alla terra dell’Aude.

Dato che Boudet fu un ecclesiastico, i suoi indizi vertevano su delicate questioni religiose che potenzialmente minacciavano l’autorità cattolica. Sia l’accenno gnostico, sia la reiterata enfatizzazione della tradizione celtica, mostrano come il messaggio fosse fortemente eretico. Si parla di un deposito di sapienza occulta che aspetta nel Nemeton (bosco sacro) il suo padrone.[12] Nella Vraie Langue Celtique troviamo principalmente due correnti sapienziali: esiste un legame tra le due?

Il Cromlech di cui parla Boudet, con il suo potere di trasformazione, assomiglia molto all’Athanor alchemico, capace di separare il pesante dal sottile, lo stesso obiettivo della gnosi. La tradizione interrotta (la lingua vivente) che qualcuno cerca con impegno di riannodare non può riferirsi alle tradizioni gnostiche? In fondo lo gnosticismo ha una genesi molto antica, tanto da poter far risalire le sue origini alle dottrine ermetico-egizie, allo zoroastrismo nonché all’induismo, con la sua convinzione di vivere in un mondo illusorio e pertanto fonte di sofferenza, in quanto offusca la vera conoscenza. Inoltre, come giustamente osservano Mariano Bizzarri e Francesco Scurria[13] sembra che questo Cromlech, sia intimamente legato alla resurrezione in vita.


E’ la rinascita il filo conduttore dell’opera di Boudet, sia che avvenga all’interno di uno spazio sacro (per i Celti un santuario non era necessariamente una ben definita struttura architettonica) sia che avvenga tramite la gnosi. Ed nella Linguadoca, gli spazi sacri abbondano, anzi, secondo Louis Charpentier, il suolo di Francia abbonda di luoghi dotati di strani poteri: in grado di influenzare la vita degli uomini.[14]

Addirittura essi sarebbero contrassegnati dai monumenti megalitici, considerati i resti di un’antichissima civiltà: quella dei giganti. Era questo il messaggio occulto di Boudet? Era questo il suo progetto più ambizioso tramandare le conoscenze alternative per permettere all’uomo di evolversi? Oppure è tutta una fantasia e Boudet era davvero un innocuo parroco? O era soltanto un nostalgico della monarchia?

Non credo che Boudet fosse uno sciocco o un sempliciotto.  Si mostra, invece, un parroco molto erudito, particolare e spesso assurdo, dotato di una genialità che mal si adatta con la tesi dell’ottusità.. Che poi le sue convinzioni fossero molto forti non lo metto in dubbio. Metto solo in dubbio la natura di queste forti convinzioni. Inoltre credo anche che, la teoria di un Boudet esoterico non escluda a priori un suo coinvolgimento politico. Le teorie più ardite, alternative o anche segrete ben si adattano con il concetto di politica inteso non solo come sistema elettorale e organizzativo dello stato, ma soprattutto con un qualcosa che coinvolge la vita interiore della persona e del cittadino. Sono le idee che trasformano gli uomini che contribuiscono a creare nuove forme di aggregazione politica. Non solo. E’ dal cambiamento della società al suo interno che si rende possibile la sostituzione o la creazione di un nuovo assetto politico. Senza l’emergere di nuove istanze sociali spesso la modifica dell’organizzazione politica non è necessaria. Persino i dittatori e i creatori degli stati autocratici fondano le loro pretese di potere su degli input sociali ( basta pensare la Nazismo e al comunismo).

Henry Boudet fu un esoterico?  Appartenne a movimenti della corrente sotterenea che dava alla linguadoca quel colore particolare e che rese famosa la vicenda di Rennes le chateau?

Note:
[1] Si stima a 5382 franchi d’oro, la somma pagata anticipatamente per pubblicare il libro.
[2] La strana numerazione dà come risultato 11, se riconsidera la pagina 2 come la pagina 1 o addirittura 12, come i segni dello zodiaco, le lettere semplici dell’alfabeto ebraico o i merletti della torre Magdala, sottolineando come, la numerologia, rivesta una notevole importanza nell’enigma di Rennes.
[3] Marc Questin, Tradizione magica dei Celti, Atanor, Roma, trad. Alessandra Pizzari pag 13
[4] Renè Guenon, Il re del mondo,  Atanor, Francesco Zambon, Roma 1976.
[5] Boudet, op. cit. pag. 100.
[6] Lo stesso sistema utilizzato in alcuni testi da Jonathan Swift l’autore dei viaggi di Gulliver.
[7] Giorgio Baietti, op.cit pag 108-109.
[8] Vedere Giorgio Baietti op.cit. pag 110
[9] C. Knigth, R. Lomas, op cit. pag
[10] Filippo Goti, il caino gnostico, www.fuocosacro.it
[11] Filippo Goti, op.cit.
[12] Boudet, op.cit. pag 264
[13] M. Bizzarri, F. Scurria op.cit.
[14] Louis Charpentier, i giganti e il mistero delle origini, Età dell’Acquario, Torino 2007, trad. Fiorella Buzzi.

La Voce di Viracocha

In tutto il mondo la memoria popolare registra un tempo remoto in cui i civilizzatori usavano il potere del suono per erigere le prime città. Avvolte nel più profondo mistero sono le rovine di Tiahuanaco, una grande cittadella fortificata sull’altopiano boliviano che un tempo sorgeva sulle sponde del lago Titicaca, un immenso mare interno che oggi, in seguito agli spettacolari mutamenti geologici e climatici, dista nientemeno che 19 chilometri dalla costa.


Disseminate su una vasta area, si trovano varie strutture megalitiche, soprattutto templi, e numerosi monoliti scolpiti e blocchi da costruzione caduti del peso di 100 tonnellate ciascuno. Prima di essere ricostruita in epoca moderna, gran parte di quel che restava di Tiahuanaco giaceva al suolo, come se l’avesse rovesciata una mano invisibile di immensa potenza distruttiva. In realtà la sua fine fu determinata molto probabilmente da una serie di calamità naturali come terremoti e inondazioni – eventi che probabilmente fecero innalzare il lago Titicaca dal livello del mare alla sua altitudine attuale di oltre tremila metri.

La datazione della città è controversa, È molto antica, quanto nessuno è in grado di dirlo; tuttavia nel 1911 un’indagine approfondita svolta dall’autorevole archeologo Arthur Posnansky, professore dell’università di La Paz, ne attribuì la data di fondazione intorno a1 10.000 a.C., presumibilmente durante le catastrofi planetarie che accompagnarono la fine dell’ultima Era Glaciale. Successivamente altri importanti studiosi confermarono la grande antichità di Tiahuanaco, anche se archeologi e storici convenzionali generalmente datano il sito appena al 700 d.C.

Il pezzo principale delle rovine della città è la Porta del Sole, un gigantesco portale in pietra del peso di una decina di tonnellate, sulla cui facciata è scolpita una figura maschile che impugna due lunghi bastoni. Si tratta del leggendario fondatore di Tiahuanaco, Ticci Viracocha, o Thunupa, che emerse da un’isola al centro del lago all’inizio del tempo, e con i suoi seguaci, detti “”i viracocha”", fondò la città prima di spostarsi a nord, diffondendo la civiltà ovunque andasse.- ...

Una leggenda, narrata dai locali indios aymara a un viaggiatore spagnolo che visitò Tiahuanaco poco dopo la conquista, parla della fondazione della città avvenuta all’epoca della Chamac Pacha, o Prima Creazione molto prima dell’ arrivo degli incas. I primi abitanti, dotati, secondo la legenda, di poteri soprannaturali, erano capaci di sollevare miracolosamente dal terreno le pietre che “”… venivano trasportate dalle cave di montagna attraverso l’aria al suono di una tromba”".

La Bolivia è agli antipodi dell’Egitto, eppure abbiamo qui una testimonianza che fa pensare che anche gli antichi popoli delle Americhe conoscessero proprietà del suono che vanno al di là della nostra comprensione.

Da dove nascevano questi miti se non erano basati su qualche realtà storica? È possibile che esista un legame tra tradizioni così lontane fra di loro?

A Giza come a Tiahuanaco è stata attribuita una data di fondazione che risale a prima della fine dell’ultima Era Glaciale, 15000-10000 a.C. circa. è possibile che una tecnologia acustica sia stata esportata in diverse regioni della terra da una cultura globale finora sconosciuta?

Gli indios aymara boliviani e peruviani raccontarono ai primi viaggiatori e storici spagnoli che Viracocha non era soltanto un civilizzatore e un operatore di portenti, ma anche uno scultore, un agronomo e un ingegnere che “”fece sì che terrazze e campi si formassero sui fianchi ripidi dei burroni, e mura di sostegno sorgessero a puntellarli”". Ma diversamente da loro, Ticci Viracocha aveva la pelle chiara e gli occhi azzurri, era alto di statura e aveva capigliatura e barba bionde o bianche.

Portava una lunga tunica bianca con una cintura in vita, e possedeva un “”fare autorevole”". Innumerevoli volte il grande portatore di sapere venne raffigurato così nel folclore e nelle leggende del Sud America, sottolineando il suo evidente aspetto caucasico. Cosa strana, poi, proprio a lui fu attribuita la capacità di muovere i blocchi di pietra con mezzi misteriosi. Un racconto ce lo presenta mentre per primo crea un “fuoco” celeste, che “si spegneva al suo comando, ma le pietre non venivano consumate così che i grandi blocchi potevano essere sollevati con le mani, come fossero di sughero”. Chi erano, esattamente, questi viracocha, e perché veniva loro attribuita la capacità di spostare i blocchi di pietra solo mediante mezzi soprannaturali?


Spostandoci a nord della penisola messicana dello Yucatán, troviamo, nascosti nel fitto della foresta, gli antichi templi dei maya, una civiltà precolombiana dotata di una cultura incredibilmente evoluta. Il loro straordinario impero fiorì nel primo millennio dell’era cristiana, ma è chiaro che avevano ereditato le loro profonde conoscenze da una cultura molto precedente. I maya erano indicibilmente ossessionati non solo dai cicli del cielo e dai movimenti delle stelle ma anche dal passaggio del tempo. Il loro complesso calendario, per esempio, poteva calcolare con precisione date di centinaia di milioni di anni addietro, individuando esattamente il giorno e il mese in cui un certo giorno cadeva.

Uno dei complessi di templi più misteriosi lasciatici dai maya è quello di Uxmal, realizzato, secondo la leggenda, da una razza di nani. Più strana, però, è l’informazione che una leggenda maya ci dà su questi mitici nani: “Per loro il lavoro di costruzione era facile, non dovevano far altro che un fischio e le pesanti pietre andavano al loro posto”. A questi potenti nani erano dovute tutte le più antiche realizzazioni del tempo della Prima Creazione, per le quali dovevano solo “fischiare perché le pietre si mettessero nelle costruzioni nella giusta posizione o perché la legna da ardere venisse da sola dalla foresta fino al focolare”.

Nonostante questi poteri soprannaturali, i nani sarebbero stati distrutti da un grande diluvio, anche se molti avevano tentato di mettersi in salvo nascondendosi sottoterra in “grandi serbatoi di pietra come le riserve d’acqua sotterranee, che loro vedevano come barche”.

Troviamo qui, ancora una volta, astratte e forse confuse storie su una razza prediluviana capace di usare il potere del suono per costruire mura di pietra. È facile etichettare questi racconti come fantasie di ignoranti, ma i popoli dell’Egitto e delle Americhe non erano i soli a impiegare il suono nella costruzione dei loro più antichi monumenti.

Secondo gli autori classici greci, Tebe, capitale della Beozia – un antico regno situato a nord ovest di Atene – fu fondata dal fenicio Cadmo, famoso viaggiatore e civilizzatore. Questa grande città, detta Cadmeia in onore del suo fondatore, sarebbe stata completata da un figlio di Zeus di nome Anfione. La cosa più singolare è che Anfione era capace di spostare grosse pietre al suono di una lira, e in questo modo poté costruire le mura di Tebe. Pausania, il geografo greco del secondo secolo dopo Cristo, parla infatti di Anfione che costruisce le mura della città “alla musica della sua lira”, mentre i suoi “canti attiravano dietro di lui perfino le pietre e gli animali”. Anche Apollonio Rodio, vissuto nel terzo secolo prima di Cristo, riferisce poeticamente nelle Argonautiche di Anfione che cantava “forte e chiaro accompagnandosi con la lira d’oro, seguito passo passo da grandi massi”.

Si tratta di semplici favole, basate su invenzioni ed esagerazioni letterarie molto più antiche, o rappresentano in qualche modo la memoria confusa di un tempo in cui gli abitanti di Tebe, uniti sotto un fondatore chiamato Anfione, erano in grado di usare il suono della lira per spostare massi e innalzare mura?

Sembra incredibile, ma se tradizioni del genere poggiano davvero su ricordi alterati di eventi reali, potrebbero contenere importanti informazioni sulle origini di questa tecnologia perduta. Le tradizioni riguardanti Cadmo indicano chiaramente che Tebe fu fondata da immigrati fenici che dovettero stabilirsi qui nel terzo o secondo millennio a.C. Cadmo, si dice, introdusse in Beozia l’alfabeto fenicio e il culto di divinità fenicie ed egizie, quindi è possibile che abbia portato con sé, dalla sua terra di origine, anche eventuali conoscenze relative alla tecnologia sonica.

La Fenicia era sede di una grande civiltà marinara fiorita verso il 2800 a.C. nella regione del Mediterraneo orientale che oggi comprende il Libano e la Siria nordoccidentale. Era costituita da una serie di città-stato, ciascuna con un proprio governo e una propria cultura, unite solo dal commercio, dalla religione e dall’abilità nella navigazione. I fenici erano i più grandi marinai dell’antichità, ma essi stessi dicevano di avere appreso le tecniche marinare da una precedente razza di dei.

Come la mitologia classica, le leggende fenicie parlano di un’età dell’oro che precedette la storia ufficiale, quando gli dei e gli uomini vivevano gli uni accanto agli altri. L’argomento è trattato negli scritti di Sanchoniatho, il più antico storico fenicio di cui abbiamo conoscenza, che visse prima delle guerre di Troia, intorno al 1200 a.c.. Egli parla del dio Urano, o Cielo, fondatore della prima città chiamata Biblo, che ancora oggi è un fiorente porto libanese. Da qui la razza degli dei colonizzò l’intera sponda orientale del Mediterraneo. Sanchoniatho ci informa anche che uno degli dei, Taautus (il Thoth egiziano, l’inventore della scrittura), fondò la civiltà egizia.

Sapendo tutto ciò, mi incuriosì la scoperta negli scritti di Sanchoniatho di un riferimento alquanto ambiguo alla levitazione delle pietre. Senza fornire alcuna spiegazione, lo storico fenicio afferma che Urano “ideò Betulia creando pietre che si muovevano come dotate di vita propria”.

La parola Betulia indica in questo contesto grandi pietre grezze di dimensioni ciclopiche. È possibile che questa cultura fenicia di Biblo, che Sonchoniatho identifica con una razza di dei, possedesse la capacità di sollevare i blocchi di pietra usando la potenza del suono? Potrebbero gli dei aver trasmesso questa capacità ai loro discendenti fenici, che a loro volta la portarono in Beozia al tempo di Cadmo e Anfione? E se così fosse, da dove potrebbe essere giunta questa conoscenza sulla tecnologia del suono?

Tanto i fenici quanto i loro contemporanei greci, i micenei, erigevano mura ciclopiche. Delfi, Micene e Tirinto furono tutte costruite, originariamente, con enormi blocchi di pietra di dimensione e peso enormi. Un disegno ottocentesco di un muro in pietra gigante appartenente alla città-stato fenicia oggi scomparsa dell’isola di Aradus, di fronte alla costa siriana mostra massicci blocchi di pietra, alcuni lunghi fino a 3 metri e pesanti dalle 15 alle 20 tonnellate ciascuno, come nella figura .

È inutile dire che esiste una netta somiglianza tra queste strutture ciclopiche e quelle della piana di Giza, in Egitto. Sappiamo che già nel 4500 a.C. popoli di una cultura prefenicia avrebbero navigato non solo nel Mediterraneo ma anche lungo la costa atlantica oltre lo stretto di Gibilterra. È possibile che questo popolo marinaro prima sconosciuto abbia in qualche modo ereditato l’uso della tecnologia del suono da una cultura ancora più antica: forse gli dei degli Anziani dell’Egitto?

Si sa che Biblo era un’attiva cittadina già attorno al 4500 a.C., e che nel 3000 a.C. circa era diventata una civiltà marinara che intratteneva scambi commerciali con paesi come Creta e l’Egitto. Molti studiosi sono propensi a credere che Biblo ebbe un suo ruolo importante nella nascita dell’Egitto faraonico. È dunque possibile che una cultura abbia ereditato dall’altra la conoscenza della tecnologia del suono? E quale fu delle due che ereditò? A questo problema, almeno per il momento, non c’è una risposta chiara. È il caso però di ricordare che fu attorno al 3500 a.C. che in Egitto si cominciò ad applicare quell’incredibile tecnica litica che, come ho già mostrato, utilizzava attrezzi ad alta tecnologia quali seghe lineari e circolari, torni meccanici e trapani a ultrasuoni.

Per il momento è sufficiente sapere che le tradizioni che collegano il suono alla costruzione di edifici sono universali e non limitate a una particolare etnia, cultura, religione o a uno specifico continente. Ciononostante, gli scettici diranno che leggende del genere sono tutte nate semplicemente dalla superstizione. Per giunta, quando anche fossero “reali”, non ci direbbero praticamente nulla sui metodi eventualmente impiegati nell’antichità per ottenere la levitazione sonica.

Ciò di cui avevo bisogno erano resoconti più affidabili sulla tecnologia sonica e dopo lunghe ricerche trovai quello che cercavo: la testimonianza diretta di due viaggiatori occidentali che avevano assistito all’uso di questa tecnologia, in Tibet, nella prima metà del ventesimo secolo: le due storie sono state entrambe raccolte negli anni cinquanta dall’ingegnere e scrittore svedese Henry Kjellson.

Il primo caso riguarda un medico svedese, a cui Kjellson attribuisce il nome fittizio di “Jarl”. Negli anni Venti o Trenta – la data esatta non viene fornita – Jarl accettò l’invito di un amico tibetano di andare a trovarlo al suo monastero, situato a sud-ovest della capitale Lhasa. Fu durante il suo anno sabbatico che Jarl avrebbe assistito alla levitazione di blocchi di pietra, alti e profondi un metro e larghi uno e mezzo, mediante l’uso del suono. L’evento avrebbe avuto luogo in un prato vicino, leggermente in salita verso una parete montuosa orientata a nord-ovest.

Jarl aveva notato che a circa 250 metri sulla parete rocciosa si apriva l’imboccatura di una grande caverna preceduta da un’ampia cornice, accessibile solo tramite funi calate dalla cima dello strapiombo. Qui i monaci stavano costruendo un muraglione in pietra. Notò anche che, a una distanza di circa 250 metri dalla base della parete, era stato interrato un grosso masso piatto, la cui superficie superiore mostrava un ampio avvallamento a tazza, profondo 15 centimetri. Circa 63 metri dietro la pietra interrata, un folto gruppo di monaci vestiti di giallo sembravano intenti a preparare un’operazione coordinata. Alcuni avevano enormi tamburi altri lunghe trombe, molti altri si stavano schierando in lunghe file, mentre uno dei monaci con una corda fornita di nodi segnava accuratamente la posizione di ciascuno. Jarl contò 13 tamburi e 6 trombe: gli strumenti erano situati a circa 5 gradi l’uno dall’altro, formando un arco di cerchio di poco più di 90 gradi centrato sul masso a tazza.

Dietro ogni strumento c’era una fila di otto o dieci monaci, la cui disposizione complessiva aveva l’aspetto di uno spicchio di ruota.

Al centro dell’arco c’era un monaco con un piccolo tamburo appeso al collo con una tracolla di cuoio. Ai suoi lati c’erano altri due monaci forniti di tamburi di media dimensione. Questi erano appesi a telai di legno con corregge di pelle fissate a un paio di bastoni che li attraversavano longitudinalmente fungendo da leve di direzione.

Da un lato e dall’altro di questi due tamburi c’erano altri monaci con le ragdon, enormi trombe lunghe tre metri. Al di là di questi, ai due lati, un altro paio di tamburi di media grandezza, poi una coppia di tamburi ancora più grandi, anch’essi sostenuti da telai di legno tramite cinghie di cuoio fissate ai bastoni.

Progredendo simmetricamente verso l’esterno sui due lati completavano questa vera e propria orchestra: altre due ragdon, altri quattro tamburi grandi (due per lato), altre due trombe e, infine, due ultimi tamburi (vedi figura sotto). I tredici tamburi erano ricoperti di pelle su un solo lato, e il lato aperto era puntato verso il masso a tazza.

Mentre Jarl osservava la scena, il primo blocco di pietra fu trascinato fino al masso su una slitta di legno trainata da yak. Presto i monaci trasferirono il peso sull’avvallamento e si ritirarono per permettere l’inizio dell’operazione. I diciannove strumenti erano tutti puntati come cannoni verso il blocco di pietra, e quando tutto e tutti furono al loro posto, il monaco con il tamburo piccolo cominciò a salmodiare ritmicamente con voce bassa e monotona, battendo con una mano sul lato dello strumento ricoperto di pelle.

Questo emise un suono secco e duro che colpì dolorosamente le orecchie di Jarl. Per tutta risposta, le ragdon suonarono e gli altri tamburi furono percossi con grosse mazze lunghe 75 centimetri e con la testa coperta di pelle.

Di ciascun tamburo si prendevano cura due monaci, che vi battevano a turno. A parte il monaco con il tamburo piccolo, nessuno pronunciò una parola.

Mentre quella strana cacofonia continuava, Jarl tentò di imprimersi nella mente la sequenza dei tamburi. Il ritmo inizialmente era molto lento, poi prese una tale velocità che egli ben presto non riuscì più a seguirlo: il loro pulsare si fuse diventando un muro compatto di suoni. Incredibilmente, il suono acuto del tamburo piccolo riusciva a penetrare il fragore combinato di trombe e tamburi. Questo gli fece pensare che era usato per segnare il tempo.

Passarono quattro minuti senza che accadesse nulla di insolito.
Poi, all’improvviso, il blocco di pietra prese a ondeggiare leggermente, come se stesse perdendo peso, infine si sollevò in aria, oscillando da una parte e dall’altra.

Poi si alzò, mentre trombe e tamburi venivano inclinati nella sua direzione.

La pietra saliva sempre più in alto, accelerando la velocità e compiendo, secondo le parole di Jarl, un arco di parabola dirigendosi verso l’imboccatura della grotta.

Alla fine, mentre i monaci continuavano a soffiare nelle trombe e a picchiare sui tamburi, il blocco giunse a destinazione piombando di peso sulla cornice con tale forza che mandò polvere e schegge di pietra dappertutto.

Poi, improvvisamente, cadde il silenzio. Volgendo lo sguardo al gruppo dei monaci, circa 240, Jarl notò che nessuno di loro sembrava minimamente colpito da quell’esperienza. Subito fu portato un altro blocco di pietra e l’operazione si ripeté nello stesso modo.

Per alcune ore Jarl poté vedere che con questo metodo furono trasportati dai cinque ai sei blocchi all’ora. Ogni tanto una pietra piombava sulla piattaforma con tale forza da andare in pezzi. Quando questo accadeva, i monaci che lavoravano nella caverna si limitavano a spingere i frammenti giù dalla cornice.

Jarl ammise di non essere riuscito a capire la funzione dei 200 monaci circa, in file di otto o dieci, dietro l’arco dei diciannove strumenti. Non emettevano alcun suono, limitandosi a osservare il tragitto di volo dei blocchi di pietra che salivano verso la parete.

A suo parere potevano essere lì per imparare la tecnica, o eventualmente per rimpiazzare i monaci che battevano sui tamburi e soffiavano nelle trombe. Oppure, concluse, per conferire un’atmosfera religiosa alla scena o magari avevano usato una forma di psicocinesi coordinata per agevolare il volo delle pietre.

L’aspetto più rivelatore del racconto è la meticolosità dei dettagli con cui Jarl registra il procedimento svoltosi quel giorno.

Annota ogni distanza, ogni angolo, ogni misura, riferendo anche dati apparentemente insignificanti. Sono troppe le informazioni presenti nella relazione conservata da Henry Kjellson per liquidarla come puro parto della fantasia.

La scelta degli strumenti, le specifiche distanze e gli angoli, il posizionamento dei blocchi di pietra su un masso a tazza al livello del suono, l’aumento graduale del suono delle percussioni, tutto fa pensare a una scienza esatta, a una tecnologia sonica ben nota alla comunità monastica visitata da Jarl. Una delle affermazioni più interessanti è quella che riguarda il modo in cui tutti gli strumenti erano costantemente puntati sul blocco di pietra, dall’inizio al momento in cui giungeva a destinazione.

Se è vero che le comunità monastiche tibetane usavano il suono per far levitare a grandi altezze blocchi di pietra, com’era possibile? Che cosa dobbiamo pensare dei 200 monaci schierati dietro i diciannove strumenti? Qual era la loro funzione?

Raggiungere una forma di psicocinesi coordinata, come sembra credere Jarl? Non lo sappiamo. Quello che sappiamo è che l’idea di usare il potere della mente per muovere le rocce faceva parte un tempo della rigida pratica di meditazione nota come dogchen, una dottrina segreta trasmessa oralmente dai seguaci del lamaismo tibetano e da singoli sciamani appartenenti a una religione prebuddista che ha il nome di Bonpo.

Il resoconto di Jarl rappresenta un’affascinante testimonianza di un tipo di tecnologia sonica di cui il mondo oggi ha perduto la conoscenza. Di per sé potrebbe non essere molto di più, ma fortunatamente non è l’unico esempio conservato da Kjellson.

Nel 1939 l’ingegnere e scrittore svedese assisté a una conferenza tenuta da un cineasta austriaco, chiamato Linauer, sui suoi viaggi in Tibet. Kjellson ebbe l’occasione in seguito di discutere a lungo sulle sue affermazioni e, convintosi della loro autenticità, le incluse nel suo libro Forsvunnen teknil ( Tecnologia scomparsa ), pubblicato nel 1961. Quello a cui Linauer sosteneva di aver assistito confermerebbe il racconto di Jarl, e getta nuova luce su quanto sappiamo a proposito delle presunte tecniche ultrasoniche dei costruttori delle piramidi.

Linauer affermò che, mentre si trovava presso un monastero isolato nel nord del Tibet, negli anni Trenta, ebbe il privilegio di assistere a eventi davvero fuori del comune. Tra questi la dimostrazione che due curiosi strumenti sonori, usati in combinazione, erano in grado di sfidare le leggi della natura a cui la scienza ortodossa aderisce in modo così rigoroso.

Il primo di questi strumenti era un gong enorme montato verticalmente su un telaio di legno. Aveva un diametro di 3,5 metri ed era composto da tre diversi metalli: la sezione circolare al centro era d’oro massiccio, e attorno a questo c’era un anello concentrico di ferro puro; questi due metalli erano cinti da un terzo anello di ottone di estrema durezza, che apparentemente possedeva una certa elasticità. L’area centrale, invece, era così duttile che un’unghia vi lasciava il segno.

L’aspetto del gong faceva pensare ad un enorme bersaglio metallico. I1 suono che emetteva quando veniva percosso non aveva nulla a che vedere con quelli prodotti da strumenti simili, perchè invece di emettere una potente nota continua e sostenuta, produceva una sorta di tonfo sommesso che cessava quasi istantaneamente.

Il secondo strumento era anch’esso composto da tre diversi metalli, anche se Linauer non fu in grado di identificarli con esattezza. Secondo i suoi calcoli era alto 2 metri e largo 1 (Kjellson non fornisce la profondità), mentre la sua forma viene detta semiovale, simile a quella del guscio di una cozza.

Sopra la superficie concava erano tese longitudinalmente delle corde ed era sostenuto da una struttura che lo manteneva fisso in posizione leggermente rialzata. I monaci dissero a Linauer che quel curioso strumento a corda non veniva suonato né toccato, ma semplicemente cantava in silenzio, emettendo, secondo le parole di Kjellson, <<un’onda di risonanza non percepibile all’udito>> solo quando il gong veniva percosso producendo il suo suono caratteristico.

In combinazione con questi strani strumenti veniva usata una coppia di schermi, accuratamente posizionati in modo da formare un triangolo con i primi due, il cui scopo sembrava quello di raccogliere, contenere e riflettere l’<<onda di risonanza non percepibile all’udito>> emessa dallo strumento semiovale.

Quando fu il momento di una dimostrazione pratica, un monaco armato di una grossa mazza si avvicinò al gong e cominciò a colpirlo traendone una serie di brevi suoni a bassa frequenza che dovevano avere un effetto peculiare sui sensi dell’ udito.

Il gigantesco guscio di mollusco cominciò a emettere quella che immagino fosse una successione di ultrasuoni che, raccolti e deviati, provocavano una temporanea assenza di peso in blocchi di pietra.

Quando ciò avveniva, un monaco poteva sollevare con una sola mano una queste pietre. Linauer fu informato che con questa tecnica i loro antenati avevano potuto costruire la muraglia di protezione intorno all’intero Tibet.

I monaci gli assicurarono anche (ma di questo lui non fu testimone diretto che quegli strumenti, e altri simili, potevano essere usati per disintegrare o dissolvere la materia fisica.

Il prezioso racconto di Linauer sembrerebbe aggiungere argomenti a sostegno della tesi che isolate comunità monastiche nel Tibet più remoto fossero in grado di usare il suono per togliere peso alle pietre. Se riusciamo ad accettare come autentiche storie del genere, si rafforza la probabilità che le leggende arcaiche che in Egitto, in Bolivia, in Messico e nell’antica Grecia raccontano di mura, templi e perfino città costruite con strumenti sonori avevano una base reale, per quanto distorta. Inoltre, il racconto di Linauer sull’ “onda di risonanza” usata per “dissolvere la materia” conferma le scoperte di Christopher Dunn a proposito dell’ impiego degli ultra suoni per perforare il granito da parte dei costruttori delle Piramidi

Non disponiamo di elementi per capire come mai isolate comunità religiose tibetane praticassero forme di tecnologia sonica ancora nella prima metà del ventesimo secolo. È possibile che le avessero ereditate da qualche cultura precedente, prebuddista, come quella dei monaci di Bonpo, la religione sciamanica indiana che influenzò profondamente le pratiche rituali del lamaismo tibetano. Altrettanto possibile è che, totalmente prive di contatto con il mondo esterno, le scuole monastiche sviluppassero queste capacità del tutto autonomamente. Forse la loro profonda conoscenza delle leggi universali li mise in rado di scoprire un mezzo con cui controllare le forze della natura in un modo totalmente diverso dalla visione della scienza che ha il nostro mondo.

Per i religiosi del Tibet, le leggi di gravità di Newton e della relatività di Einstein semplicemente non esistevano, quindi non potevano intralciare la via del progresso. Ma se accettiamo questa ipotesi, dobbiamo anche immaginare che la cultura egiziana degli Anziani possedeva un’eguale lettura del mondo tanto che fu in grado di sviluppare una conoscenza delle leggi universali che va al di là dell’immaginazione del mondo scientifico. Se così fosse, dobbiamo anche concludere che è solo il nostro approccio rigido e dogmatico a impedirci di sviluppare tecnologie che non sopportano le restrizioni dei limiti della scienza ortodossa.

Riconoscere che il lamaismo tibetano potrebbe aver sviluppato, o forse ereditato, una conoscenza avanzata della tecnologia sonica ci porta a chiedere come sia stato possibile che questa notizia non sia mai trapelata nel mondo occidentale. La risposta a questo inquietante interrogativo è un curioso paradosso. Quando Linauer assisté alle straordinarie proprietà del grande gong e dello strano strumento a forma di cozza, i monaci gli spiegarono che avevano custodito gelosamente i segreti della loro tecnologia perché non venisse sfruttata male nel mondo esterno. Di norma i viaggiatori stranieri non venivano ammessi ad assistere agli effetti prodotti dai loro incredibili strumenti. I monaci precisarono che la ragione di tanta riservatezza era la convinzione che se avesse raggiunto l’Occidente, questo antico potere sarebbe stato sfruttato a fini egoistici e distruttivi, e non potevano permetterlo. Una decisione simile è perfettamente comprensibile; il risultato però è stato che le testimonianze offerte da viaggiatori occidentali come Jarl e Linauer sono le uniche notizie che abbiamo in proposito. Inoltre, la distruzione del lamaismo tibetano a opera della Rivoluzione Culturale cinese già dagli anni Cinquanta ha privato il mondo scientifico della sua migliore occasione di confermare che la tecnologia sonica era ancora praticata negli anni Trenta. Nonostante le affermazioni contrarie della propaganda cinese, l’occupazione del Tibet prosegue oggi più brutale che mai.

Molti esuli tibetani sono perfettamente al corrente delle storie incredibili che parlano di un tempo in cui i loro antenati avevano la capacità di far levitare blocchi di pietra e di disintegrare la roccia con il solo potere del suono. Questa sfida alle leggi naturali è oggi poco più di un ricordo che va rapidamente sbiadendo nella mente di anziani monaci e lama. Che queste antiche scienze siano state preservate per millenni per poi andare perdute nell’epoca moderna è davvero una perdita gravissima.

Leggere i racconti di Jarl e Linauer e rendersi conto che oggi non esistono più neppure i monasteri è un fatto di una tragicità estrema.

La fiamma della conoscenza si era estinta completamente? Esisteva il modo di riattizzarla ricostruendo i fondamenti teorico-fisici alla base di questa scienza apparentemente perduta, nota al mondo antico? Intendevo scoprirlo con ogni mezzo possibile.



domenica 28 aprile 2013

I falsi miti sulla Crisi Economica


Vediamo un semplice esempio di come uno Stato sovrano della propria moneta possa convertire la ricchezza reale di un Paese in ricchezza finanziaria (moneta) per i cittadini e l'economia reale.

Scopriremo allora che oggi con l'Euro questo non sia più possibile in quanto chi finanzia gli Stati non sono più le banche centrali nazionali ma banche e mercati privati che attraverso la moneta non svolgono l'azione sociale della vecchia Banca d'Italia ma generano profitti solo per sé stessi sottraendo ricchezza finanziaria (la famosa liquidità) all'economia reale e la trasferiscono ai mercati finanziari per la mera speculazione su altre forme di profitto dopo aver esaurito i ricchi bacini in cui stanno oggi operando.


Ave Ishtar. Ora Pro Nobis...

La Vergine Nera di Montserrat
La Vergine Nera di Montserrat - Spagna

In Italia, come in altri paesi del continente europeo, non è raro imbattersi nell'effige di una Madonna Nera, ossia rappresentata col volto bruno. In realtà, le Madonne Nere sono tra le immagini più sacre della Chiesa Cattolica e si trovano nei più riveriti Santuari e Cattedrali d'Europa. Tutta via la maggior parte delle volte questa immagine rappresenta un significato ben più profondo e precedente al culto mariano ed alla stessa religione cristiana.

È innegabile, infatti, che il Cristianesimo nascente abbia dovuto, per potersi imporre, soppiantare i culti esistenti, in particolare sostituire i culti primigeni della Grande Madre con quello della Vergine Maria. Il Culto della Grande Madre risale al Neolitico, se non addirittura al Paleolitico, se leggiamo in questo senso le numerose figurine di donne dai seni prosperosi ed il ventre gonfio (simboli legati alle fertilità) ritrovati un po' ovunque in Europa. Con il passare del tempo la Magna Mater è stata rappresentata in moltissime forme diverse, addirittura moltiplicandosi in diverse divinità femminili all'interno della stessa religione, per metterne in risalto i diversi aspetti, ora legati alla fecondità della terra, ora alla fertilità ed alla sessualità, ora all'alternarsi delle stagioni.

Non a caso, la maggior parte dei culti dediti alla Grande Madre erano culti ctoni, cioè venivano svolti in templi sotterranei, o caverne, laddove le correnti telluriche, ovvero la manifestazione delle energie della terra, si fanno più forti.

Nell'area del Mediterraneo conosciamo oggi nomi e storie di queste divinità che s'imposero, nell'ambito delle varie culture che si sono avvicendate, con il culto della Grande Madre:

- in area mesopotamica (V millennio A.C.): Inanna, Ishtar, Astarthe;
- in area anatolica (II millennio A.C.): Cibele, Rea;
- in area greca: Gaia (o Gea), Afrodite, Demetra, Persefone, Proserpina;
- in area etrusca: Mater Matuta;
- in area romana: Bona Dea o Magna Mater, Venere.

Per quanto riguarda la diffusione del culto in ambito cristiano, è bene innanzi tutto fare una doverosa premessa. Le varie effigi della Madonna Nera oggi conosciute possono avere origini diverse:

1) sono statue della Madonna originariamente di "carnagione chiara", che poi sono annerite nel tempo a causa dell’ossidazione dei pigmenti che ne coloravano il volto, e della lunga esposizione al fumo delle candele votive. Queste ipotesi, tuttavia, sono state spesso utilizzate come spiegazioni di comodo per le origini di molte effigi di questo tipo, nel tentativo, forse, da parte delle rappresentanze cattoliche più intransigenti, di celare le origini pagane e, per certi versi, più "scomode" del mito. Ciò soprattutto quando, alla luce dell’osservazione comune, non si riesce a spiegare come i suddetti processi naturali di annerimento abbiano potuto essere così "selettivi" da privilegiare il volto e le mani e non, per esempio, gli abiti o gli altri elementi.

2) Si tratta di fusioni "sincretiche" con i culti locali, specialmente in territorio africano o dell’America Latina, quando il Cristianesimo ha influenzato e poi soppiantato le diverse religioni locali, che rappresentavano le divinità a loro immagine e somiglianza, ovvero con la pelle di colore scuro.

Ove non si possano fare queste ipotesi semplificative, è lecito indagare più a fondo nell’origine di tale mito. Il culto delle Vergini Nere si diffuse soprattutto durante il Medioevo, ad opera di grandi personaggi e riformatori religiosi.

Madonna Nera - Subiaco



E' illustre l'esempio di San Bernardo di Chiaravalle, attivissimo oratore e promulgatore instancabile, che tenne a battesimo i due più grandi ordini medievali: quello monastico dei Frati Cistercensi, di cui fu il massimo esponente e per i quali redasse la Regola, e quello dei Cavalieri Templari, che raccomandò al Papa e per i quali adattò la stessa regola modificandola per le esigenze dovute alla loro duplice natura di monaci e guerrieri.

Secondo la leggenda da lui stesso narrata in un suo scritto, Bernardo rivela di aver ricevuto l'illuminazione un giorno in cui si trovava a pregare nella Chiesa di Saint Vorles a Chatillon-sur-Seine, in contemplazione di una statua di una Madonna Nera. Si dice che dopo che egli avesse pronunciato le parole "Monstra te Matrem" (Mostrati, o Madre), Maria si premette il seno e tre gocce del suo latte caddero dalla sua bocca; si noti il senso simbolico di tutto ciò.

Molte Madonne Nere, scolpite o dipinte, vengono tradizionalmente attribuite all’apostolo Luca. L’origine di questo accostamento sembra anch’esso avere connotazioni fortemente simboliche: se la Madonna Nera, infatti, pesca nel retaggio dei culti della Grande Madre, e quindi in quelli collegati della fertilità e delle energie della terra, l’evangelista Luca è, tra i quattro, quello il cui emblema simbolico è rappresentato da un Toro, animale simbolico tradizionalmente associato alle stesse energie.

Il colore nero, in questo contesto, è altamente simbolico. È la Prima Materia, l’ingrediente base che permette all’Alchimista la realizzazione della Grande Opera, la realizzazione della Pietra Filosofale, nella prima e cruciale fase detta, appunto, "nigredo". Non a caso, rivela l’adepto Fulcanelli nel suo "Mistero delle Cattedrali", le parole "materia" e "madre" hanno la stessa radice, "mater", che sancisce il connubio tra la Grande Madre, la Madre di Dio e la Prima Materia dell’Opera. È, altresì, la "morte spirituale" dei filosofi e dei grandi mistici, la "morte in sé" che precede la rinascita, il ritorno alla luce, l’unione spirituale con il principio divino, tutti concetti che in un modo o nell’altro, sotto forma di allegorie o di dottrine segrete, hanno da sempre caratterizzato il sapere dell’uomo.

Ritroviamo queste tematiche, opportunamente celate e velate da immagini simboliche, nelle leggende locali che solitamente accompagnano il culto di una Madonna Nera e che ne tramandano il ritrovamento miracoloso. Protagonisti della scoperta, che avviene sempre in circostanze eccezionali, sono umili personaggi, pastori o contadini. Il ritrovamento è spesso legato ad un elemento di forte valenza tellurica, come una grotta o una sorgente d’acqua. Non a caso, infatti, nelle immediate vicinanze del luogo di ritrovamento si trovano sorgenti dalle proprietà miracolose o "pietre della fertilità".

Soffermiamoci per un attimo su questo ultimo, importante, elemento. In varie parti del mondo, spesso assai lontane e di culture molto differenti, si ritrova la medesima tradizione di associare alle grandi pietre, blocchi monolitici infissi nel terreno, la capacità di propiziare la fertilità a quelle donne che si recano a strofinarvisi sopra. Talvolta, le pietre hanno anche proprietà taumaturgiche, come quelle di lenire reumatismi e dolori in genere. Non deve meravigliare: le pietre sono da sempre considerate le "ossa della Madre Terra" (come l’acqua ne è il sangue), e non sono altro che "spinotti" naturali che attingono alle correnti telluriche sotterranee e le accumulano come condensatori, irradiandone all’esterno i loro benefici influssi. Tutto ciò era ben risaputo dagli architetti medievali, che furono tra i più grandi costruttori di cattedrali, templi di pietra destinati alla concentrazione di queste energie ed al loro benefico dispensamento alla comunità dei fedeli raccolti al suo interno.

Queste caratteristiche accomunano la Madonna Nera ad un altro noto simbolo, quello della Triplice Cinta, che ha valenza simile e che spesso, soprattutto nel Medioevo, è stato utilizzato dagli stessi costruttori e posto all’interno di edifici religiosi per contrassegnare luoghi di particolare sacralità tellurica. Non sembra per caso, infatti, che spesso il simbolo compare nelle vicinanze di un luogo ove si veneri, o sia stata venerata, una Madonna Nera.

http://www.angolohermes.com/simboli/madonne_nere/madonne_nere.html

sabato 27 aprile 2013

Il Culto delle Madonne Nere

Papa Francesco in preghiera presso la Madonna Nera di S.Maria Maggiore

Fin dalla preistoria la Grande Dea è esistita nell’immaginario di ogni uomo come è dimostrato dal rinvenimento di numerose statuette in terracotta o in pietra nel corso degli scavi archeologici. Perciò la mia indagine parte dalla religione primigenia della Mater Terrae, dea pagana del mondo antico.

Alcune sue caratteristiche fisiche sembrano volerci riportare in un tempo arcaico in cui la divinità femminile, dispensatrice di fertilità, amore e giustizia, appare agli occhi dell’uomo come colei che tutto può e tutto vede, perciò definita con l’appellativo di Myrionyme, la dea dai mille volti (Iside, Cerere, Epona, Amaterasu, Ishtar, Artemide, Diana, Demetra ecc.).

Il concetto di questa divinità è sopravvissuto nei secoli trasformando i suoi simboli in nuova religione. Il suo volto diventa scuro come quello di Ecate e le sue mammelle allattano il neofita iniziato. L’origine del grande grembo generatore fa parte di un segreto millenario che si perde nella notte dei tempi quando si elevavano i canti e si danzava attorno al fuoco sacro. Questo oscuro rituale, eseguito nelle torri di pietra, finì per diventare oggetto di grande venerazione in tutto il mondo allora conosciuto. Sussistono varie ipotesi sulle origini del suo culto che sembra risalire molto prima delle antiche civiltà.

Sulle sue ginocchia Iside tiene Horus che allatta teneramente, con il libro segreto nella mano, mentre il suo volto enigmatico e scuro è coperto da un velo impenetrabile. «Nessun mortale potrà sollevare il mio velo. Solo colui che nascerà dal sacro Abacus potrà vedere il mio volto». La stessa rappresentazione, denominata la Vergine che allatta, la troviamo a Clermont Ferrand, in Francia, nella chiesa del XV secolo denominata Notre Dame du Port. Altra strana coincidenza?

In altre epoche appare come una sirena dalla doppia coda, la conoscenza eterea e l’immortalità, che trascende il concetto religioso dell’insondabile. Non a caso viene identificata anche con le dee Astarte ed Hathor o con il faraone-donna Hatshepsut. E stata anche utilizzata come ideogramma per indicare il ka egiziano. Compare spesso nelle architetture (capitelli, mensole ecc.) risalenti a periodi diversi anche se a volte è inserita fra altre simbologie ermetiche di non facile interpretazione e ancora oggi oggetto di approfondito studio da parte dei ricercatori.

La sua mostruosa raffigurazione, busto di donna e coda di pesce, ha un’origine sia mediorientale che nordica. Ulisse si fece legare all’albero della nave per non cedere alla seduzione del loro richiamo. Infatti nella filosofia orientale la sirena rappresenta il complesso dei tranelli (illusioni, desideri e passioni) nei quali l’uomo non deve mai cadere per poter giungere alla piena illuminazione. Spesso la troviamo scolpita con la doppia coda sia sugli stipiti di diverse chiese romaniche, come la Basilica di San Nicola di Bari, che nelle cattedrali gotiche e in alcuni mosaici pavimentali, come quello della Cattedrale di Otranto.

E stata oggetto di culto anche presso le popolazioni nordiche, infatti, negli Shobdon Arches ad Herefordshire (Galles) è stata inserita al centro della cornice del portale maggiore della chiesa romanica di San Giovanni Evangelista. Il culto delle Madonne Nere ha, quindi, un’origine remota e molte sculture e icone sono state trafugate in Terrasanta dai Crociati e portate in Europa dove sono sorte numerose chiese dedicate al suo culto. Ha rappresentato, nei secoli, il punto di contatto di diversi dogmi: l’adorazione della Luna, della Vergine-Madonna e di Maria di Magdolum, ultimo controverso paradosso teologico.

Gli ordini cavallereschi, in particolare Templari e Teutonici, hanno considerato la Dea-Vergine come l’athanor della riproduzione cosmica. E’ possibile comprendere lo stretto collegamento fra la Dea-velata e l’immagine esoterica della Madonna-Maddalena solo se si interpreta, in chiave letterale e criptica, l’archetipo “Notre Dame” (Nostra Signora) voluto da Bernardo di Clairveaux e da Federico II di Svevia. Ancora oggi numerose sono le testimonianze della sopravvivenza del culto della Iside-Vergine che né il tempo e né le lotte dogmatiche hanno potuto distruggere.

Si è sottolineato da più parti che tutto ciò appartiene a una cultura che ha poco a che vedere con la nostra religione e la nostra epoca. Ma forse è vero il contrario. Il riscoprire gli archetipi della propria Fede non può che aumentare la devozione popolare verso la Luna-Madre-Vergine-Maria, sacro grembo del corpo mistico del Cristo-Redentore. Il fascino di questa tematica mi ha indotto a studiare e interpretare le simbologie contenute in alcune chiese, dedicate alle Madonne Nere, proprio per far luce sulla mistica cistercense e sulle conoscenze esoteriche degli ordini monastico-cavallereschi che sono stati i divulgatori del nuovo culto mariano. Persino nel Cantico dei Cantici (Ct 1,5) la Vergine Maria viene definita Nigra sum sed formosa – Sono bruna, ma bella.

Ma perché le immagini delle Madonne sono di color scuro?

Per alcuni studiosi il motivo è da ricercarsi probabilmente al fumo delle candele che hanno bruciato dinanzi ai simulacri per anni e anni. Personalmente non sono d’accordo con questa tesi in quanto nelle rappresentazioni pittoriche o nelle sculture intagliate nel legno, queste madonne hanno solo il volto e la pelle anneriti, ma non certamente le vesti che, al contrario, sono di vari colori. Ma spostiamoci un attimo nel tempo e affrontiamo l’enigma della Cattedrale di Chartres con la sua Vergine Nera del pilastro. La Cattedrale, innalzata sopra un antico luogo di culto druidico e frequentato dai Celti e poi dai Galli, presenta all’esterno e all’interno numerose sculture cariche di simbolismi ed elementi pagani e templari. Ma perché quel luogo era così importante?

La probabile risposta ci viene fornita dallo studioso Sebastien Rouillard che in un suo libro, scritto intorno al 1609, afferma che, prima che arrivasse la religione cristiana, là dove oggi si erge la cattedrale preesisteva un tempio dedicato a una Vergine particolarmente venerata dai Druidi celti. La leggenda narra che i sacerdoti Druidi eressero un altare all’interno dove collocarono la statua della Vergine Nera con il Bambino, intagliata in un tronco di pero. Poco distante, nel cosiddetto “pozzo dei possenti” o di “coloro che vedono oltre”, dove si incontravano le linee energetiche della terra, avvenivano le cerimonie iniziatiche.

Ancora prima, nello stesso luogo, sorgeva un nucleo megalitico dove la dea Carmelle (la portatrice della pietra sacra), fecondata da Belenos, dio della Gallia, mise alla luce Tua. Come si può osservare si tratta sempre della stessa iconografia adottata dalle diverse religioni.

Altra strana coincidenza?

Le Madonne Nere sono presenti in tutta l’Europa con maggiore concentrazione in Francia (Liguadoca e Borgogna) e in Italia (Puglia). La chiesa cristiana non ha mai permesso che si perpetuasse la venerazione dell’elemento femminile perché in grado di annientare il potere sacerdotale maschile. Ma al contrario essa diventò la custode della rinascita spirituale dell’Ordine del Tempio che rispose così a un bisogno particolare di fede, in un’epoca in cui la Chiesa si sforzava di annullare i residui dell’idolatria pagana. Ma i Templari trovarono nella nuova religione la forza non solo esteriore ma anche interiore. Una forza vitale che ebbe appunto origine da un antichissimo retaggio culturale.

Forse fu questa la vera ragione che ne decretò l’improvvisa fine, in quanto essi furono i naturali continuatori dell’adorazione della Signora, del sincretismo ortodosso dell’incarnazione della sapienza ancestrale della donna e dell’ereticità gnostico-cristiana che, grazie anche ai Catari, prepotentemente si diffuse in tutto l’Occidente, facendo tremare pericolosamente le fondamenta di Roma.

Ti potrebbero interessare anche...

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...