venerdì 14 giugno 2013

Il Ciclo di Frenkel


E’ incredibile come nel dibattito politico vengano regolarmente evitate certe analisi economiche. Sto parlando del ciclo di Frenkel, che spiega esattamente quello che sta succedendo all’interno dell’Eurozona.

Frenkel ha infatti individuato dei tratti comuni nelle crisi in cui vi è stata una precedente fissazione del tasso di cambio e una liberalizzazione dei mercati finanziari. La sua analisi prende in considerazione due paesi: uno detto periferico  e uno centrale (ogni riferimento tra Italia e Germania non è puramente casuale). Ma andiamo per gradi.

Inizialmente il paese periferico implementa una serie di riforme strutturali che di solito comprendono: la fissazione del tasso di cambio, per renderlo credibile, la liberalizzazione dei mercati finanziari e la deregolamentazione per la libera movimentazione dei capitali fra i due paesi.

Nel nostro caso il cambio fisso è ovviamente rappresentato dall’Euro (prima di lui dallo SME), la liberalizzazione dei capitali e dei mercati sono invece conseguenza dei meccanismi di integrazione economica europea (come ad esempio l’abolizione della distinzione tra banca tradizionale e d’investimento).

Subito dopo queste riforme l’entusiasmo sale alle stelle galvanizzato dal fatto che si è eliminato il rischio di cambio. Iniziano così ad esserci sempre più casi di arbitraggio per beneficiare della differenza dei tassi di interesse. Di conseguenza il paese periferico è più incentivato ad indebitarsi con l’estero proprio perché offre soluzioni meno dispendiose.

Il grande afflusso di capitali verso il paese periferico comporta un aumento considerevole nell’erogazione dei crediti seguito da un abbassamento dei tassi d’interesse. La facilità di accesso al credito favorisce l’aumento dell’occupazione e del prodotto. Tutto questo fa poi registrare un aumento del tasso d’inflazione rispetto al paese centrale.

La differenza dei tassi d’inflazione in un sistema di cambi fissi porta ad un apprezzamento dei beni periferici e quindi ad un corrispondente deprezzamento di quelli centrali. Questa variazione comporta il peggioramento del deficit commerciale della bilancia dei pagamenti e quindi ulteriori afflussi di capitali.

Ad un certo punto ci si rende conto che il tasso di cambio fisso non è più credibile. Per questo motivo gli investitori iniziano a ridurre la propria esposizione agli asset a rischio svalutazione causando il cosiddetto sudden-stop (uno stop improvviso, un crash).

Avvertito il pericolo la Banca Centrale (d’ora in poi BC) inizia a “difendere” il cambio cercando di attirare capitali alzando i tassi di interesse. Spesso però queste politiche lanciano segnali negativi ai mercati che ritengono sempre meno sicuri gli asset di quel paese. Qualcuno la chiama semplicemente crisi degli spread, ma si tratta sempre della stessa cosa.

Queste politiche della BC però non possono durare per molto in quanto le riserve prima o poi finiscono a causa anche della difesa del cambio che cerca di attuare sui mercati valutari vendendo valuta estera e comprando quella nazionale. Siamo quindi alla fine del ciclo dove vi è una “rottura” del cambio ormai insostenibile.

Le conseguenze di questa rottura non sono però prevedibili poiché dipende ovviamente delle politiche implementate dal Governo del momento.

Quanto appena detto è la descrizione di quello che sta accadendo in Europa e purtroppo/per fortuna ci troviamo all’ultimo stadio del ciclo. 

Sfortunatamente però la nostra classe politica (intendendo anche quella europea) non sembra aver intuito quale dinamiche ci abbiano portato a questa crisi, o meglio da quello che fanno non sembra proprio.  Eh già, è molto più facile e remunerativo in termini elettorali parlare delle auto blu, della mensa del Parlamento piuttosto che delle dichiarazioni di un cantante.


L’economista argentino Roberto Frenkel (conosciuto in Italia anche grazie ai lavori di Alberto Bagnai e Sergio Cesaratto)partendo dal modello d’instabilità finanziaria di Hyman Minsky, ha studiato i comportamenti dei mercati finanziari nelle economie emergenti che hanno subito crisi valutarie dopo la deregolamentazione del periodo Reagan-Thatcher.

L’economista, riflettendo sulla crisi argentina, ha evidenziato un comportamento simile in tutti i casi precedenti e spiega che a causa dell’agganciamento nominale del cambio e alla contemporanea deregolamentazione della circolazione dei capitali, i paesi con i fondamentali più forti inondano di liquidità i paesi più deboli. In questo modo i paesi più forti lucrano sui tassi d’interesse e allo stesso tempo le economie periferiche accedono al credito relativamente a buon mercato. In questo modo però l’economia della periferia viene drogata dall’accesso facile al credito, provocando l’innalzamento del debito estero.

Il PIL all’inizio aumenta e questo crea euforia nei consumi, facendo alzare i prezzi.A questo punto i beni d’importazione diventano più convenienti anche sulle fasce basse. Ora accade che per uno schock esterno qualunque (poniamo ad esempio il caso Lehman Brothers) il centro comincia a dubitare del rimborso dei debiti della periferia. Si verifica così un “sudden stop” ovvero un deflusso dei capitali dalla periferia verso il centro; così gli spread aumentano (i paesi del centro lucreranno anche sui tassi d’interesse dei titoli di Stato) e lo Stato periferico è obbligato a ripianare le perdite delle banche e a sostenere i redditi delle imprese e delle famiglie indebitandosi sul versante pubblico. Si entra in crisi sistemica, il paese periferico non può più pagare il debito non riuscendo a piazzare i titoli governativi per la perdita di credibilità ed è costretto a sganciarsi dalla valuta di riferimento.


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