Il tribunale di Norimberga, che processò e condannò non solamente dei ministri e dei generali tedeschi, ma la loro stessa appartenenza al partito nazista (andato legalmente al potere nel 1933) e all’esercito del Terzo Reich, operò in spregio della giustizia, formulando capi d’accusa che non esistevano nella legislazione internazionale, come i “crimini contro la pace”, e trattando tutti gli imputati come una banda di criminali, pur rispettando una apparente correttezza formale; questa ormai è storia e non occorre insistervi sopra.
Quello che ancora non è passato nelle coscienze e nell’opinione pubblica, però, è il perché gli Alleati agirono in quel mondo; per quale ragione vollero imbastire un processo-farsa nel quale i vincitori, fatto mai accaduto prima, si arrogavano il diritto di giudicare i vinti con una sentenza inappellabile e già scritta in partenza; né si è messo abbastanza in luce l’elemento di continuità che lega il trattato di Versailles – quando i rappresentanti della Germania dovettero sottoscriver e un documento in cui si accollavano tutta intera la responsabilità della guerra del 1914 -, il processo di Norimberga del 1945-46, e tutta una serie di azioni militari e giuridiche attuate successivamente dalla superpotenza americana, in parte con la copertura delle Nazioni Unite, in parte senza di essa, come gli interventi in Jugoslavia nel 1999 e in Iraq nel 2003, coronati dalla cattura e dal processo spettacolare, per crimini di guerra, degli esponenti di quei regimi sconfitti.
Il saggista francese Maurice Bardèche (1907-1998), del quale ci siamo già occupati altra volta (cfr. l’articolo Sparta e i Sudisti nel pensiero di Maurice Bardèche), con notevole lucidità intellettuale aveva formulato la risposta all’interrogativo in questione fin dagli anni immediatamente seguenti al processo di Norimberga, in un saggio spregiudicato e non sempre condivisibile, ma indubbiamente coraggioso e penetrante, intitolato Nouremberg ou la Terre Promise (tradotto in italiano da Gianna Tornabuoni, con il titolo I servi della democrazia, pubblicato dalla casa editrice Longanesi & C. di Milano nel 1949), del quale ci piace riportare alcuni passi particolarmente significativi:
«L’opinione pubblica e i mandanti delle potenze vincitrici affermano di essersi eretti a giudici quali rappresentanti della civiltà! È la spiegazione ufficiale, ed anche il sofisma ufficiale, giacché si prende per principio e base sicura proprio ciò intorno a cui verte la discussione. Soltanto alla fine del processo aperto tra la Germania e gli alleati si potrà dire da quale parte la civiltà fosse. Non certo al principio, e soprattutto non è certo una delle parti in causa che potrà dirlo. […] La verità è tutt’altra. Il fondamento vero del processo di Norimberga, quello che nessuno ha mai osato designare, temo sia la paura: è lo spettacolo delle rovine, e il panico del vincitore. “Bisogna che gli altri abbiano torto”. È necessario, perché se per caso essi non fossero stati dei mostri, quale peso immane avrebbero le città distrutte e le bombe al fosforo! L’orrore, la disperazione dei vincitori è il vero motivo del processo. Si sono velati il viso davanti alla necessità di certe cose e, per farsi coraggio, hanno trasformato i loro massacri in crociate. Hanno inventato “a posteriori” il massacro in nome dell’umanità. Da assassini si sono promossi gendarmi. Si sa del resto che, da una certa cifra di morti in su, ogni guerra diviene obbligatoriamente una guerra del diritto. La vittoria è completa soltanto quando, dopo aver forzato la cittadella, si conquistano le coscienze. Da questo punto di vista il processo di Norimberga è un mezzo di guerra moderna meritevole di essere descritto quanto un bombardiere (pp. 14-16).
Le apparenze della giustizia furono salvaguardate in modo perfetto. La difesa aveva pochi diritti, ma quei pochi furono tutti rispettati. Qualche zelante ausiliario del pubblico ministero fu richiamato all’ordine per essersi permesso di qualificare prematuramente gli atti sui quali doveva fare il proprio rapporto. Il tribunale interruppe l’esposto del pubblico ministero francese per il suo carattere sleale e diffuso, e rifiutò di ascoltarne il seguito. Molti accusati furono assolti. Le forme infine furono perfette e mai giustizia più discutibile fu resa con maggior correttezza. Questo apparato moderno, infatti, come si sa, ebbe per risultato di resuscitare la giurisprudenza delle tribù negre. Il re vincitore si insedia sul suo trono e fa chiamare gli stregoni: e lì, davanti ai guerrieri seduti sui talloni, i capi vinti vengono sgozzati. […] Un tribunale che fabbrica le leggi dopo essersi installato sul suo seggio, si riporta ai confini della storia. Nemmeno al tempo di Chilperico si osava giudicare in questo modo. La legge del più forte è un atto leale al confronto. Quando il Gallo grida: “Vae victis”, per lo meno non crede di essere Salomone. Quel tribunale invece è riuscito ad essere un’assemblea di negri in colletto duro: è il programma della nostra futura civiltà (pp. 26-27).
…nessuno può essere mai sicuro di non far parte di un’organizzazione criminale. IL calzolaio tedesco, padre di tre bambini, vecchio combattente di Verdun, che ha preso nel 1934 la tessera del partito nazista, è stato accusato dal pubblico ministero di far parte di un’organizzazione criminale. Cosa faceva di diverso il commerciante francese, padre di tre bambini, vecchio combattente di Verdun, entrando nel movimento “Croci di fuoco”? L’uno e l’altro credevano di appoggiare un’azione politica atta ad assicurare il risorgere del proprio paese. L’uno e l’altro hanno compiuto il medesimo atto: e tuttavia gli avvenimenti hanno dato a ciascuno di quegli atti un valore diverso,. L’uno è un patriota (se ha ascoltato la radio inglese, beninteso), ma l’altro viene accusato dai rappresentanti della coscienza umana. Queste difficoltà sono gravissime. Il terreno ci sfugge sotto i piedi. I nostri sapienti giuristi forse non se ne rendono conto, ma vengono così ad accettare una concezione del tutto moderna della giustizia: quella che nell’U.R.S.S. servì di base al processo di Mosca. La nostra concezione della giustizia era stata sinora romana e cristiana romana, in quanto esige che ogni atto punibile riceva una qualifica invariabile essenziale all’atto stesso; cristiana, in quanto deve essere sempre considerata l’intenzione, sia per aggravare, sia per attenuare le circostanze dell’atto qualificato delitto. Esiste tuttavia un’altra concezione della colpa, e per molti versi può chiamarsi marxista: essa consiste nel pensare che un’azione qualsiasi, non colpevole in sé né per la sua intenzione,al momento in cui fu commessa, può apparire legittimamente colpevole in una certa visuale posteriore agli avvenimenti. Non faccio paragoni. I marxisti sono senza dubbio in buona fede, giacché essi vivono in una specie di mondo non euclideo ove le linee della storia appaiono raggruppate e deformate o, se si vuole, armonizzate in una prospettiva marxista. Mentre Shawcross e Justice Jackson, rappresentanti inglese e americano, vivono in un mondo euclideo, ove tutto è sicuro, chiaro o almeno dovrebbe esserlo, e dove i fatti dovrebbero essere fatti e nulla più. Soltanto la loro malafede ci trasporta in un mondo instabile; e là le nostre intenzioni non contano più, persino le azioni non contano, “ciò che noi siamo in realtà non conta”. […] Allora si avanza il giudice e ci dice: “Voi non siete più un calzolaio tedesco o un commerciante francese come credevate; siete un mostro, avete appartenuto ad una associazione di malfattori, avete partecipato ad un complotto contro la pace, come è chiaramente indicato nella prima sezione del mio atto d’accusa” (pp. 34-35).
Questo permanente stare in guardia, ci prepara una forma di vita politica che non dobbiamo ignorare e che d’altronde tre ani di esperienza continentale non ci permettono di ignorare. La condanna del partito nazionalsocialista va assai più lontano di quanto possa sembrare. Essa colpisce in realtà tutte le forme solide, tutte le forme geologiche della vita politica. Ogni nazione, ogni partito che abbiano il mito della patria, della tradizione, del lavoro, della razza sono sospetti. Chiunque reclami il diritto del primo occupante e attesti cose evidenti come la signoria della città, offende una morale universale che nega il diritto dei popoli a redigere la propria legge. Non soltanto i tedeschi ma noi tutti veniamo così ad essere spogliati. Nessuno ha più il diritto di sedersi nel proprio campicello e di dire: “Questa terra mi appartiene”. Nessuno ha più il diritto nella città di levarsi e di dire: “Noi siamo gli anziani, noi abbiamo costruito le case di questa città; colui il quale si rifiuta di obbedire alle leggi se ne vada”. Ormai è scritto che un concilio di esseri impalpabili ha il potere di sapere ciò che avviene nelle nostre case e nelle nostre città. Delitto contro ‘umanità’: questa legge è buona, quella no. La civiltà ha il diritto di veto (pp. 46-47).»
Bardèche osserva che, mano a mano che cresceva, già durante la guerra, l’ideologia della guerra antifascista come una crociata, la Resistenza diveniva il nuovi mito di essa e perfino i bombardieri che riducevano in cenere le città tedesche venivano denominati “Liberatori”: e questo perché, dovendo lottare contro dei mostri, qualunque atrocità diveniva legittima e anzi benemerita, poiché affrettava la fine del Male. È la stessa logica che portò al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, non necessario dal punto di vista militare e deliberatamente diretto su due città inermi, piene di donne, bambini e anziani, non su obiettivi strategici.
Ma la parte più interessante della riflessione di Bardèche, che non possiamo qui riportare per motivi di spazio e di cui consigliamo la lettura integrale, è quella riguardante le conseguenze non solo politiche e giuridiche, ma soprattutto economiche e finanziarie del “nuovo ordine mondiale” inaugurato dal processo di Norimberga; riflessione che, scritta più di sessant’anni fa, presenta aspetti di straordinaria intuizione dei meccanismi futuri, e parla in un linguaggio che appare di stupefacente attualità.
Si incomincia con la limitazione della libertà della nazione sconfitta: ieri la Germania, oggi la Iugoslavia o l’Iraq. Prima di consentire il ritiro delle truppe d’occupazione, si chiede al nuovo governo, nato dalla disfatta, di firmare un trattato in cui ci si impegna solennemente a non ripercorrere le strade di quello precedente e a rispettare tutti gli impegni contratti col vincitore e con la comunità internazionale – il vincitore si identifica con la comunità internazionale, ieri la Società delle Nazioni, oggi le Nazioni Unite: in questo modo, si identifica automaticamente con la “civiltà” e degrada a “barbarie” qualunque forze gli si opponga o ardisca di resistergli.
Dalla limitazione della libertà politica si passa a quella economica: bisogna tenere aperte le frontiere al commercio internazionale (cioè del vincitore), aprire le porte al capitale internazionale (cioè del vincitore): accettare di acquistare i prodotti esteri al prezzo stabilito da altri e di vendere i propri secondo la loro convenienza. È una truffa, ma perfettamente legale; di più: è un inno all’ideologia del libero mercato, che si sposa con quella della democrazia. Dove c’è democrazia, c’è libero mercato: ossia limitazione della sovranità nazionale e imposizione di condizioni economiche che tornano a vantaggio di altri.
La cessione di sovranità – cosa oggi evidente nell’Unione europea – reca vantaggi alle banche, ma fa pagare ai cittadini costi altissimi e li priva del diritto fondamentale di dire “no” a condizioni di vita intollerabili: avete firmato un trattato, dovete attenervi ad esso. Nel caso del debito pubblico, ciò significa che i cittadini dello Stato X si vedono accollare la responsabilità di una voragine finanziaria di cui non hanno alcuna colpa, ma che devono ripianare, lasciandosi legare alla catena e imporre sacrifici durissimi da un organo extra-nazionale, per esempio la Banca centrale europea. Uno Stato sovrano può decidere di stampare moneta per dare respiro ai cittadini contribuenti, come fanno Stati Uniti e Gran Bretagna; ma uno Stato che ha rinunciato alla sovranità finanziaria non può farlo: ha infilato la testa nel cappio, può solo piegarsi agli ordini.
Qualcuno non gradisce l’ingresso di milioni di stranieri, che provoca insopportabili situazioni di disagio e di grave minaccia alla sicurezza personale? Non c’è niente da fare: avete firmato un trattato, dovete accettare e subire in silenzio; altrimenti verrete condannati dalla corte di giustizia del Super-stato. L’Australia può respingere anche una sola barca di immigrati clandestini, disinteressandosi del loro destino; ma se l’Italia fa altrettanto, dopo averne accolte a migliaia e migliaia, viene trascinata in tribunale e sommersa dalla marea dell’indignazione mondiale: ma come, siete così crudeli da respingere quella povera gente? E intanto le città e le periferie si riempiono di spacciatori di droga, di prostitute, di ladri e stupratori: ma guai a dirlo, si diventa razzisti. E non si può dire che le carceri scoppiano perché sono piene di malfattori stranieri; se le carceri sono piene, ebbene, basta svuotarle ogni tanto con un indulto, fino a che si riempiono di nuovo, nel giro di qualche anno o qualche mese; e poi fare un altro indulto, e così via.
L’idea di un Super-stato mondiale democratico nasce con il processo di Norimberga, che è, al tempo stesso, un terribile monito a chi pensa ancora di poter fare la politica dei vecchi tempi: a casa mia son padrone io, questa società l’ho costruita io, questa casa, queste fabbriche le ho costruite io, questi campi li ho creati e coltivati io; ma adesso non lo si può dire: non si è più padroni in casa propria, bisogna piegare la testa a quello che decide il capitale finanziario mondiale. Dietro la maschera della democrazia, il totalitarismo democratico; e, come sua inseparabile compagna, la dittatura mondiale delle banche e delle multinazionali.
Tutto ciò viene accompagnato da una campagna capillare di disinformazione e di lavaggio del cervello, in modo da persuadere i cittadini-contribuenti che tutto quanto avviene è per il loro bene, per la tutela della pace e della giustizia, per il rispetto dei diritti umani; che non esiste altro Dio fuori della democrazia e del libero mercato e che chi si oppone a tale dogma è un eretico meritevole di essere bruciato sul rogo, beninteso dopo essere stato moralmente denigrato sino a convincere tutti che la sua condanna è cosa giusta e pia. Alle giovani generazioni viene insegnato che ab antiquo, ai tempi della barbarie precedente la democrazia e il libero mercato, l’umanità viveva in condizioni intollerabili sotto ogni punto di vista; mentre adesso si sta dirigendo verso i paradisi del Progresso e della Felicità, e non ha nulla da rimpiangere e tutto di cui rallegrarsi. Prima c’erano i nazionalismi, fonte perenne di tensioni e di conflitti (il che è vero, ma è solo una parte della verità); oggi ci sono il cosmopolitismo, le frontiere aperte, la libera circolazione delle merci, delle persone e delle idee; prima c’erano le società chiuse, brutte e cattive, intolleranti e oscurantiste; oggi ci sono le meraviglie della società aperta, multietnica e multiculturale; del mondo divenuto un villaggio, dove tutti sono a casa dappertutto, dove tutti si vogliono e bene e si rispettano, purché bevano Coca-Cola, mangino le bistecche di McDonald’s e guardino le stesse idiozie alla televisione.
Oddio, c’è ancora qualche piccolo difetto in questa straordinaria e luminosa costruzione; ci sono ancora tensioni e incomprensioni, interne e internazionali; ci sono, ogni giorno, attacchi e massacri ai danni dei cristiani che vivono in Africa e in Asia; ci sono milioni di aborti nel mondo “sviluppato” e milioni di bambini che muoiono di fame in quello “in via di sviluppo”; ci sono popoli e classi sociali che devono accontentarsi di vivere con le briciole che cadono dalla tavola di altri popoli e di altre classi sociali. Ma via, bisogna avere ancora un po’ di fiducia e di pazienza, e tutto finirà per aggiustarsi, come in un trionfale “happy end” alla Walt Disney.
Certo, c’è anche un altro piccolo particolare che non passa del tutto inosservato, per chi abbia ancora un minimo di facoltà giudicante: che dall’abiura solenne del nazionalismo restano esclusi Stati Uniti e Gran Bretagna, i vincitori della seconda guerra mondiale; che, mentre nel resto del mondo il nazionalismo è considerato poco meno di un delitto, da combattere in ogni modo e da criminalizzare con film, libri, siti internet e perfino giornalini a fumetti, nei due Paesi anglosassoni il nazionalismo è tuttora preservato e coltivato, anzi, è il collante della vita sociale, anche nelle sue forme più aggressive e truculente: e il principino Harry che uccide un capo talebano in Afghanistan viene applaudito in patria, così come il generale Kitchener quando portò in omaggio alla regina Vittoria la testa del Mahdi, disseppellita dalla tomba dopo la riconquista britannica del Sudan.
Ma che importa? Certo, quella che viviamo è una “pax americana”: però si tratta di dominatori straordinariamente generosi e moderati; ci hanno liberati dai peggiori incubi della storia, come il nazismo e il comunismo – non importa se furono proprio essi, con il loro egoismo finanziario, ad alimentarli, se non a crearli -; ci hanno liberato, a suon di bombe, dalla parte cattiva di noi stessi (“Liberator” era il nome dei loro aerei, che ridussero l’Europa in cenere fra il 1943 e il 1945); i loro ragazzi diedero la vita, sulle spiagge di Anzio e su quelle della Normandia, per restituirci la libertà, benché non ne fossimo del tutto degni, visto che l’avevamo disprezzata e gettata via come fosse stata carta straccia; dunque dobbiamo loro eterna riconoscenza, ed è ben giusto che essi facciano la parte del leone nel mondo così generosamente liberato e saggiamente pacificato.
E se poi, per caso, qualcuno osasse avanzare dei dubbi sul “nuovo ordine mondiale”, non già per nostalgia del fascismo o del comunismo, ma per amore di verità e giustizia, allora non potrebbe trattarsi che di un nemico pubblico, indegno di far parte del consorzio civile: di un mostro, appunto, da trascinare solennemente in giudizio, affinché la sua condanna risulti esemplare…
Nessun commento:
Posta un commento