Alla Casa Internazionale delle Donne di Roma per il Convegno “Matriarcato ed Economia del Dono”, nove studiose e attiviste internazionali hanno condiviso, con le numerose donne presenti, le loro ricerche ed il loro contagioso entusiasmo sui temi del femminismo odierno. E’ stata così messa in luce, da una parte, la difficoltà di riannodare il filo rosso con il passato, ma dall’altra la consapevolezza e la speranza che il lavoro di tutte tenga acceso quel piccolo lume che deve divenire faro di speranza per cambiare il buio profondo del patriarcato.
Nonostante il clima torrido, la sala “Simonetta Tosi” era stipata all’inverosimile. Sono arrivate con un dono, naturalmente: un pane dalla forma di Dea-madre, cucinato secondo la antica tradizione del lievito naturale e del forno a legna. Lo avevano usato la mattina per un rituale propiziatorio in onore di Giunone, la dea che, prima della romanizzazione, conservava gli attributi della divinità femminile pagana che il culto assegnava agli avvenimenti della vita delle donne.. E il pane è stato condiviso tra le presenti come un rito di unificazione.
L’economia del dono, come ci ha ricordato Genevieve Vaughan, che ha organizzato l’incontro odierno, è sempre esistita in tutte le tappe dell’evoluzione della specie.L’homo donans viene prima e dopo il sapiens-sapiens, perché è la madre che, insieme al linguaggio, trasmette al bambino la logica che sottende il dono, ovvero la soddisfazione dei bisogni come sua intrinseca modalità di relazione. Il dono, che tutti noi impariamo a praticare prima che le leggi del patriarcato lo ricaccino nel silenzio, è tuttavia il nostro imprinting e non riesce ad essere cancellato, ma ricompare spontaneamente nella società sebbene travestito da scambio.
E’ il dono che, agito inconsapevolmente, continua ad alimentare e a far vivere la società come il nutrimento materno, per un figlio però mostruoso e divoratore della sua stessa madre, lo scambio contro denaro. La mercificazione di tutti i doni inconsapevoli e di quelli di madre-natura sono abilmente deviati dal potere capitalistico e patriarcale per far crescere a dismisura un sistema autofago. Gettare luce sul fatto che è il dono gratuito, che le donne soprattutto continuano a praticare, che oggi alimenta l’insaziabile bulimia del capitalismo e che, riconosciuto e individuato, potrà invece finalmente essere liberato e rappresentare un autentico paradigma alternativo.
E i moderni studi matriarcali. utilizzando metodologie interdisciplinari che vanno dalla storia della cultura e delle religioni, alla antropologia, all’archeologia, al mito si propongono di ricostruire, partendo dagli studi di Bachofen e Morgan, la conoscenza storica sepolta di società che, dal paleolitico e in parte ancor oggi, ci presentano una visione sociale incentrata sull’egemonia culturale del femminile. Civiltà sacrali in cui il divino immanente conduce all’egualitarismo, al pacifismo ed al rispetto ed empatia con la Natura.. Civiltà passate che possono darci spunti però per una trasformazione della società che adotti regole di convivenza umana più accoglienti.
Alcune hanno infatti parlato di un presente sconfortante per le donne. Anche la politica neo-liberista della Comunità Europea si è trasformato in una sorta di colonizzazione, dall’apparenza soffice, ma molto aggressiva, da parte del neoliberismo, che sta distruggendo il sistema di welfare che soprattutto le donne avevano costruito e che, seppur in un’ottica capitalistica, permetteva una migliore qualità di vita. E’ allo studio un progetto che, seguendo la logica aberrante di considerare la donna anziana come un peso per il sistema pensionistico pubblico, la vuol costringere a optare per la devoluzione dei suoi beni in favore delle compagnie di assicurazione in cambio dell’assistenza e della pensione privata. Tutto questo ci fa sentire ormai la presenza dei metodi dei totalitarismi di recente memoria, ma anche dei più antichi roghi, appiccati per coprire di un velo ideologico il ben più reale disegno di appropriazione dei beni delle donne.
Senza parlare poi della famiglia. Più spesso luogo di sofferenza psicologica e di violenza fisica, viene promossa dalla onnipervasiva propaganda come obiettivo insostituibile nella vita delle giovani. La famiglia nucleare è il luogo dove avviene la separazione tra il privato e il pubblico, tra le cose “secondarie”, sessualità, emozionalità, e quelle “importanti” che riguardano la vita della società e la politica.
La storia è piena di eroi, guerre, grandi avvenimenti, ma non parla mai dei luoghi della vita quotidiana, quelli che dovrebbero influenzare la politica. Eletta luogo della procreazione e della mediazione tra il bambino e la società, la famiglia è in crisi e se ne dà colpa alla donna, che ne è il collante. Ma è l’istituzione famiglia che è entrata in crisi, perché sacrifica le donne a non poter vivere liberamente e pienamente l’affettività e la sessualità, disgiuntamente dalla procreazione e dai problemi della sopravvivenza. Cose garantite invece dalla famiglia matrilineare, dove convivono più generazioni di donne, figlie e figli della matriarca, e dove la comunità dei beni assicura un retroterra economico e una protezione affettiva che permette di scegliere liberamente un compagno e potersene liberamente separare senza che i figli ne facciano le spese .
Per fortuna la colombiana Angela Dolmetsch ci ha riaperto alla speranza di cambiamento descrivendo, con parole e immagini, di un ecovillaggio, Naschira, in cui 88 famiglie condividono i valori materni e l’ economia del dono. Un luogo in cui donne e uomini impostano la loro convivenza sulla pace, la mancanza di competitività e la condivisione del lavoro sociale. Un esperimento basato sulla coltivazione della terra e la distribuzione dei beni prodotti con forme di baratto e monete alternative. Un esperimento di cui Angela auspica la replica su larga scala, come contributo per un cambiamento globale.
E soprattutto il modo di rapportarci agli altri dovremmo cambiare. La sudafricana Bernedette Muthier e la filippina Letecia Layson, ci hanno parlato dei principi su cui si basa la convivenza delle loro comunità, che hanno resistito in parte alla colonizzazione e dove circolano parole come Coesan, Ubuntu, Capua : parole magiche che esprimono l’interdipendenza, interconnessione e dipendenza reciproca e che non esistono nel vocabolario dei popoli occidentali civilizzati e civilizzatori. “L’esistenza di una persona avviene attraverso le altre persone”. “Non c’è diritto senza obbligo”. “Il diritto dell’uno non può voler dire rinuncia dell’altro”.
Questi sono i principi che portano a ridere di chi tenta di costruire sé stesso al di fuori del suo ruolo nella comunità, di chi vuole avere spicco, così rinunciando all’eguaglianza, allo stare insieme, alla sua grande famiglia. Ne ridono, senza alcuna invidia, come di chi fa una scelta sciocca e autolesionistica. Sono i “portatori di cultura”, ci dicono, a tenerla viva e a difendere la sua unicità: artisti, musicisti. E in particolare le Babaylan, donne sagge, guaritrici, sciamane, sacerdotesse e insegnanti, custodi della tradizione. Sono i modi di vita e i principi su cui si basavano le antiche civiltà matriarcali..
Marguerite Rigoglioso infine ci ha sorpreso con l’argomento, tra la storia e il mito, delle nascite verginali. Concepimenti eccezionali, partenogenetici, delle sacerdotesse divine. Sdoppiamenti di dee nella loro figlia divina. Nel mito sono rimaste innumerevoli tracce di dee nate per partenogenesi. Non sappiamo se sia solo un mito. Qualcuno afferma di no. Si tratta comunque di un argomento affascinante e misterioso che il patriarcato ha riletto in chiave di autentici stupri di sacerdotesse, ninfe, vergini e dee da parte di divinità maschili invisibili o trasformate.
La lunga storia delle donne necessita di un paziente lavoro di ricostruzione. Possono aiutarci gli innumerevoli ritrovamenti di immagini rituali, le cosiddette “veneri”, in realtà rappresentazioni della divinità del femminile. Nella evoluzione della loro fattura e delle loro sembianze, ci consegnano tracce innumerevoli della storia delle donne e del ruolo che esse hanno ricoperto. Una storia che si sta riavvicinando e che ci fa pensare che “si può”.
Questo convegno ha avuto, in ultima analisi, la funzione di catalizzare esperienze e realtà seppur diverse ma orientate intorno ad un progetto di società alternativo a quello presente. Ma anche e soprattutto questi incontri fanno emergere prepotentemente il bisogno delle donne di ritrovare la propria identità e il conforto di incontrarsi come migranti in un mondo che non ci appartiene. Il tentativo faticoso di ritrovare un passato dimenticato ma non rimosso .
Questi momenti collettivi lasciano la consapevolezza gioiosa di aver ritrovato un tassello mancante di una gigantesca rappresentazione e di aver fatto un altro passo verso la riappropriazione della nostra immagine sbiadita, dei contorni che ci definiscono. Resta sullo sfondo il dolore e la rabbia per essere state espropriate, cancellate, estromesse. E la constatazione che, al crescere della nostra consapevolezza corrisponda un sempre più duro, perché più subdolo, tentativo di ricacciarci indietro.
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