mercoledì 2 aprile 2014

Luoghi Maledetti - Il caso del Passo Dyatlov

Esistono davvero luoghi maledetti? Sembrerebbe che nel mondo ne esistano di diversa fattura e non pochi: foreste e montagne dalle quali alcune persone spariscono inspiegabilmente, ma anche luoghi dove sono stati ritrovate persone e ricercatori, uccise in circostanze misteriose da qualcosa di sconosciuto.


Il Triangolo delle Bermuda, il Triangolo del Diavolo nel Pacifico, la Valle della Morte in Siberia, la Foresta dei Suicidi in Giappone, Miasnoy Bor in Russia, la Montagna dei Morti e tanti tanti altri luoghi “maledetti” in ogni parte del mondo. Diversi anche in Italia. 

Da migliaia di anni ci sono luoghi sulla Terra creduti sinistri o maledetti e si racconta che chi si e' avventurato in quei luoghi, ignorando gli avvertimenti, sia scomparso per sempre o sia morto in maniera orribile. Ma cosa rende questi posti tanto pericolosi da essere poche le persone che si sono avventurate in quei luoghi, e ancor meno quelli che sono sopravvissuti per poter raccontare quello che hanno visto?

Difficile stabilirlo. D'altronde chi avrebbe il coraggio di indagare in quei luoghi? L'avvertimento, molte volte tramandato attraverso il mito o i racconti della tradizione popolare delle popolazioni autoctone è quasi sempre quello di non entrare in quelle zone, foreste, montagne spesso identificate con appellativi quali “della morte” o “del diavolo”, perché non ne uscirete mai vivi. Le leggende sono molte, addirittura qualcuno azzarda l’ipotesi che popoli alieni abbiano abbandonato lì le loro potenti armi. 

E’ il caso della Tunguska, dei suoi misteriosi calderoni e del presunto macchinario alieno o antidiluviano ivi nascosto in grado di distruggere i corpi celesti quali meteoriti o comete in rotta di collisione con la Terra così come ipotizzato dal Dr. Costantino Paglialunga e dal Dr. Valery Mikhailovich Uvarov, Capo del Dipartimento di Ricerche Ufologiche, Paleoscienza e paleotecnologia al National Security Academy di San Pietroburgo Russia.

La distruzione o la deviazione dei corpi celesti afferma Uvarov, si ottiene utilizzando enormi globi di plasma, prodotti dal “macchinario alieno”. Quello che nel 1908 migliaia di persone videro in gran parte della Siberia era il loro volo, con il risultato che i testimoni dell’evento di Tunguska attribuirono l’intero fenomeno alla comparsa di una serie di fulmini globulari. 

Apparentemente le sfere di “Plasma” sono prodotte da un generatore di energia situato nelle profondità della Terra”. Troviamo importanti conferme dell’esistenza di questa installazione nei racconti tradizionali della popolazione locale situata vicino alla zona dell’esplosione di Tunguska. Le leggende narrano di “fulmini ardenti”, “sfere fiammeggianti” e di tremende esplosioni col risultato che per centinaia di chilometri la superficie circostante si trasforma in un deserto disseminato di rocce. 


Nella Yakutia o Repubblica Saha, esiste un poema epico d'origine antica, l'Olonkho, che ebbe inizio molto probabilmente quando gli antenati vivevano nell'originaria "Terra Madre", situata nella regione compresa tra il Lago Baikal e il fiume Angara. In tale luogo s'intrapresero relazioni con gli antenati dei popoli provenienti dalla Turchia e dalla Mongolia che vivevano nell'Altai e nel Saiany, tanto che i Kurykans, gli antenati della Yakutia, avevano molto in comune con gli antenati del popolo turco durante il periodo compreso tra il VI° e VIII° secolo. 

Una curiosità: i monti Altai sono diventati famosi nell’ambito della ricerca scientifica antropologica grazie alla scoperta dei misteriosi crani appartenenti all’Homo Denisova che hanno creato molto scalpore a causa della difficoltà di integrazione degli stessi nella consolidata e tradizionale teoria dell’Out of Africa I e II relativamente alla remota storia del genere Homo.

Ad ogni modo, si ritiene che la comparsa dell'Olonkho si debba collocare tra il VI° ed il XV° secolo e una delle principali caratteristiche di tale poema è di essere una storia originale. Composto di oltre 200 canti, che sino ad alcuni decenni fa sono stati tramandati solo per via orale o meglio per mezzo di canzoni, presenta differenti eroi e cospiratori: Niurgun Bootor, l'Impetuoso, è il più importante e rappresentativo giacché molto espressivo e sagace. 

Il 25 Novembre 2005 l'Olonkho è stato proclamato, dal direttore generale dell'Unesco, uno dei tanti capolavori facenti parte del Patrimonio Orale e Intangibile dell'Umanità con lo scopo di valorizzarlo e preservarlo. Nella saga del Niurgun Bootor, l'Impetuoso, si trovano notizie sugli oggetti strani ed anche su esplosioni veramente forti che ogni tanto accadono sin dai tempi più remoti, gli antichi nomi geografici della zona occupata dagli yakuti e dai tungusi, corrispondono totalmente al contenuto della leggenda, ma danno un'indicazione approssimativa sugli oggetti coperti dal terreno ghiacciato. 

Nello specifico, il poema ci narra che gli oggetti sconosciuti apparvero nel tempo più remoto, alcuni di essi sono delle grandi "case di ferro" che posano su appoggi multipli laterali, non hanno né porte né finestre, ma solo un ingresso spazioso che permette di scendere con una specie di scala a chiocciola e che rassomiglia alla "gola" di un enorme buco, sistemato alla sommità di un'altissima cupola. 

Altri oggetti sono dei "coperchi" semisferici che si trovano in diversi posti e un "rampone trilaterale di ferro" che si vede emergere dalla terra solo in parte, ma con l’andar del tempo tutti questi manufatti si sono quasi completamente nascosti nel gelo perpetuo. Le esplosioni, che ogni tanto succedono nella zona, sono strettamente legate a questi oggetti misteriosi, la leggenda parla anche della causa reale di tutti i vari disastri avvenuti. 

Si tratterebbe di un "cratere misterioso" eruttante fumo e fuoco, con un coperchio d’acciaio dentro il quale si trova un intero paese sotterraneo, in esso vivrebbe l’enorme gigante Uot Usumu Tong Duuray, il cui nome significa "alieno malvagio", che buca la terra e si nasconde sotto di essa: egli, con un turbine di fuoco, distrugge tutto quello che trova nel suo intorno, seminando infezione e lanciando un "pallone" di fuoco, la leggenda aggiunge inoltre, che con quattro tuoni successivi, questo pallone si dirige ad un’altezza sempre più alta fino a scomparire dietro l’orizzonte dei cieli gialli occidentali, lasciando una "traccia di fuoco e fumo". Visto così, l’eroe era considerato un personaggio positivo, dato che andava a distruggere delle altre tribù, ma sembra proprio che l’immagine data dalla leggenda sia incredibilmente simile a quella che si è verificata nella Tunguska nel 1908. 

Al momento dell’uscita dell’eroe malvagio Tong Duuray dal cratere, nel cielo appariva il messaggero del "Dyesegey Celeste", il gigante Kun Erbye, il quale, come una stella cadente più veloce del fulmine, attraversava il cielo per avvertire Nurgun Bootor della battaglia che stava per cominciare.

Disseminando una bufera di pietre,
facendo balenare lampi e rimbombare
un quadruplice tuono dietro di sé,
Niurgun Bootor volava senza deviare...

La sua descrizione nelle leggende è simile alla situazione di volo e dell’esplosione del bolide di Chulym che è penetrato nell’atmosfera fino all’altezza di circa 100 Km, ripetendo esattamente la traiettoria del meteorite della Tunguska ed è esploso con un fascio di scintille sopra il fiume Chulym il 26 febbraio 1984, i pescatori della zona, hanno inoltreosservato che da dietro le colline, situate verso il nord, sono saliti verso il cielo due grandi palloni illuminati e che sono spariti dietro le nuvole; in ambedue i casi si parla della direzione nord, dove si trova l’epica "Valle della Morte". 

Per ritornare alle leggende, il più grande evento descritto riguarda proprio l’uscita di Tong Duuray dalle profondità terrestri e la sua battaglia con Nurgun Bootor: prima dal “cratere” usciva un turbine di fuoco rassomigliante ad un serpente, sul cui apice si formava un “pallone di fuoco” che, dopo una serie di colpi di tuono, si lanciava verso il cielo. 


Insieme con lui, dalla terra, usciva la sua scorta “uno sciame di turbini sanguinari e perniciosi”, che creavano distruzione nei dintorni; a volte succedeva che Tong Duuray incontrasse Nurgun Bootor proprio sopra il luogo della sua uscita, dopo di ché la zona rimaneva senza vita per moltissimo tempo. 

In genere, la situazione di questi eventi è ben variegata: dal cratere potevano uscire più "giganti di fuoco" alla volta, volare per un certo tempo e poi esplodere tutti insieme, lo stesso succedeva anche nel momento dell’uscita di Tong Duuray e gli strati di terreno lasciano capire, in particolare, che tra le successive esplosioni potevano passare dai 600 ai 700 anni.

La leggenda ne parla con colori vivaci, ma l’analfabetismo ha impedito di documentarle in una maniera più accessibile e più vicina alla nostra civiltà.

...Imprendibile in volo, privo di ombra, 
il fulmineo araldo, messaggero del Celeste Dyesegey, 
sfolgorante nella sua cotta metallica, più repentino del lampo, 
Kun Erbye, il campione.

Sfrecciava, come stella cadente, solo l'aria sibilava
dietro di lui... Sfrecciava come un dardo oltre i limiti
dei gialli cieli occidentali, sino alla rapida
china inferiore dei cieli sospesi sopra l'abisso.

Sfrecciava alto; solo il tuono rumoreggiava...
Un fuoco blu ardeva dietro di lui, un fuoco bianco
imperversava nella sua scia, scintille rosse volteggiavano.

Guarda caso il nome antico di questi luoghi in lingua Yakuta è Ulyuyu Cherkechekh, che significa “Valle della Morte”.

Una ipotesi quella di Uvarov e Paglialunga peraltro non del tutto assurda considerato quanto accaduto proprio a sud degli Urali nel Febbraio del 2013 quando la cosiddetta Meteora di Čeljabinsk   un meteoroide di circa 15 metri di diametro ha colpito l'atmosfera alla velocità di 54.000 km/h, circa 44 volte la velocità del suono, e si è frantumato sopra la città di Čeljabinsk. Potrebbe essere stato distrutto dal macchinario alieno/antidiluviano siberiano?


Il folklore europeo ha tramandato una quantità di luoghi maledetti o caratterizzati da una presenza diabolica. Come orientarsi in mezzo a tutte queste suggestioni, come vagliare ciò che può esservi di autentico in questi racconti e in queste leggende?

Talvolta, in concomitanza con tali racconti della tradizione popolare si registrano testimonianze che lasciano perplessi; segnalazioni di creature mostruose, di esseri pelosi sbucati fuori dai boschi, oppure di creature rettiliane emerse dai fiumi; oppure ancora, avvistamenti di strane luci e bagliori nel cielo notturno, perfino di dischi volanti che evoluiscono in maniera inspiegabile e che, posandosi a terra e poi ripartendo, lasciano dietro a sé delle tracce caratteristiche e indubitabili, quali l'erba appiattita o bruciata in mezzo ai prati.

Tutti questi elementi, tratti dalle cronache e dalle statistiche, sembrano indicare che, su talune località - incroci o tratti stradali, rive di laghi e di fiumi, lande, brughiere, vecchie case in rovina o tuttora abitate - è come se incombesse un sortilegio; come se delle forze negative, di origine non umana, facessero sentire la loro maligna presenza; come se tali forze fossero vive e operanti, suscettibili non solo di incutere un senso di disagio e perfino di spavento, ma anche dei veri e propri malesseri fisici e, in alcuni casi, di provocare incidenti o malanni.

A volte la malignità dei luoghi si direbbe materialmente percepibile: vi sono delle località che sembrano possedere un'aura malefica; dei luoghi, sovente, legati al ricordo di foschi drammi di sangue, di apparizioni spettrali o diaboliche, di cupe vicende di violenza e di morte. Il tema del luogo malvagio è un "topos" della letteratura gotica, quasi una inversione che il Romanticismo nordico ha deliberatamente compiuto nei confronti del classico "locus amoenus" della poesia greca e latina; una sorta di vendetta contro la solarità, l'armonia, la bellezza della natura.


Ma la domanda che ci poniamo è se si tratta solamente di un "topos" letterario romantico, oppure esso, a sua volta, è il riflesso, il ricordo, l'archetipo di un qualcosa di reale, di un qualcosa che gli uomini hanno sempre sperimentato, sin dalla notte dei tempi?

Per gli antichi, è cosa nota, esistevano i luoghi sacri, abitati dalle divinità (maggiori o minori); mentre, per il cristianesimo, esistevano ed esistono dei luoghi benedetti, che conservano un'eco, e talvolta più di un'eco, della presenza di Dio e della Madonna: tali sono la grotta di Lourdes, ai piedi dei Pirenei; il villaggio di Fatima, in Portogallo; il monte di Medjugorje, fra le valli dell'Erzegovina; e numerosi altri.

Le chiese cristiane, poi, come pure i templi pagani, non venivano costruiti a caso: tanto la posizione che l'orientamento astronomico erano frutto di una scelta accurata, in base a studi matematici e a pratiche sacre e divinatorie da parte di sacerdoti che possedevano, un po' come i rabdomanti, l'arte perduta di percepire le energie positive e negative della Terra.

Un arte che nel corso del secolo scorso ha assunto connotati di scienza, seppur di un ramo di scienza ritenuta 'eretica': la radionica. Essa è quella pseudoscienza che studia le proprietà radioattive ed energetiche delle onde di forma, che vengono realizzate ed utilizzate mediante circuiti grafici su tavole disegnate.

Partendo dal concetto ormai consolidato nei millenni che, i numeri non sono altro che una delle tante espressioni astratte, profonde e filosofiche che l’uomo adotta ed ha adottato per cercare di comprendere la sua vera natura originale e tutto ciò che lo circonda, e che di conseguenza la geometria non è altro che la rappresentazione fisica di dette espressioni matematiche o numeriche, possiamo dire che tramite la radionica, che studia le onde di forma realizzate su circuiti grafici mediante le suddette espressioni o formule elaborate dall’esperienza di tutte queste scienze, è possibile attingere a forme di azione-pensiero e di espressione tramite le radiazioni da loro sprigionate legate ad un dato problema di cui noi necessitiamo una risposta in modo più diretto, profondo e astratto, quindi di conseguenza a noi sconosciuto a livello razionale.

Queste forme di pensiero create e materializzate tramite gli ideogrammi realizzati su circuiti grafici radionici ad onde di forma, possono essere utilizzate ed incanalate mediante diversi metodi per i più disparati utilizzi.

Ultimamente si è riscoperto che nell’azione-pensiero materializzato nei circuiti radionici, è possibile realizzare un serbatoio energetico inesauribile di informazioni legate alla forma-pensiero stessa dove possiamo attingerne le sue radiazioni anche come azione compensatoria relativa ad ogni problematica in questione, apportandovi così equilibrio.

Parlando sempre di forma-azione-pensiero, principio base della radionica, giunge subito spontaneo che la sua azione risulterebbe più mirata per quanto riguarda le problematiche di compensazione e astratte che appartengono alla sfera mentale dell’individuo e che qui potrebbero trovare le risposte più profonde e adeguate ad essa.

Una disciplina che possiede molte analogie con l'orgone di Wilhelm Reich il quale ha trascorso l'ultima parte della sua vita allo studio del fenomeno - all'onnipresente e onnipervadente Energia Vitale.

Wilhelm Reich iniziò la sua carriera in Austria e Germania come dottore psichiatra , in stretta associazione con Sigmund Freud e ha contribuito in maniera notevole alla comprensione del collegamento tra la sessualità umana e la psicologia e non smise mai di aprire nuove frontiere di ricerca, che venivano man mano ad aprirsi durante la sua vita.


Tuttavia Reich non fu ne il primo ne l'ultimo ad osservare il funzionamento di quella che sembrava un "energia vivente" o una "forza anti-entropica".
Prima che la visione meccanicistica della vita si imponesse , poco più di un secolo fa (Newton e altri) , tutte le tradizioni conoscevano un qualche concetto di "mare energetico" dal quale tutte le forme materiali si manifestano.

Questo termine è conosciuto nelle tradizioni dell'Induismo (prana), buddismo e taoismo (Chi, Ki come nel Rei-Ki) tradizioni dell'estremo oriente ma che conoscevano anche i greci (etere), lo stesso concetto è intuitivamente o esplicitamente noto a tutte le tradizioni di guaritori sciamanici intorno al mondo.

Nell'Europa post-Newtoniana, oggi, personalità (volutamente) dimenticate come il magnate bohemiano dell'acciaio , il Barone Karl V. Reichenbach o il famoso dottore Austriaco Anton Mesmer (dal quale deriva il detto "personalità mesmerizzante") contribuirono con valide ricerche ed esperienze e furono ben noti al loro tempo.
Negli anni recenti si assiste non solo al riemergere di tecniche di guarigione e cura basate sull'energia vitale come il reiki (Rei-Ki = Sacra Energia Vitale) ma anche a una convergenza delle più avanzate ricerche nel campo della fisica quantistica con queste antiche tecniche mistiche.

La fisica quantistica è oggi arrivata al punto in cui anche la più elementare particella è stata meccanicisticamente dissezionata e ispezionata e questo l'ha portata a interrogarsi sul suo stesso paradigma. I fisici quantistici si interrogano ora sulla stabilità della materia stessa e sono arrivati a concettualizzare che le particelle elementari stesse non sono altro che perturbazioni "sulla superficie di un oceano d'energia senza fine" che alcuni scienziati sono d'accordo nel definire "Energia di punto Zero".
Concetti questi molto simili al mito dell'energia vitale che prese il nome di Vril nelle opere e delle società teosofiche a cavallo tra il 1800 e il 1900 e che ci avvicina agli studi di Tesla sulla free energy scomparsi dopo la sua morte.

Oggi la fisica moderna ammette che la materia è composta da energia che, muovendosi, si manifesta sotto forma di onde e quando è stazionaria produce campi di forza. Le onde elettromagnetiche tra cui le onde cosmiche, le onde sonore, fino alle energie più sottili, comprese quelle emesse dall'attività cerebrale, sono "onde di forma". Emettono radiazioni gli animali, i minerali, i cristalli e persino alcune forme geometriche. 

Costituiscono il corpo della Radionica: la Radioestesia Parafisica e la Fisica Radioestesica, insieme allo studio delle onde di forma relative alle forme geometriche. 

Il termine Radioestesia è composto da due radici: una dal latino Radius, che vuol dire "Raggio" e l'altra dal greco "Aisthesis" che vuol dire: "sensibilità, percezione". In altri termini: sensibilità alle radiazioni, agli impulsi, alle vibrazioni, alle emanazioni.

La Radioestesia comprende anche lo studio della Geobiologia e della Geopatia e conduce nel misterioso mondo delle vibrazioni, impercettibili e non, di tutto il vivente.

E' la scienza che, mediante il "sentire", le radiazioni che ogni corpo e ogni sostanza emette, ci consente di scoprire cosa è nascosto al loro interno, di conoscerne l'ubicazione, l'entità, la natura, la specie, la qualità e l'influenza che esercitano le une sulle altre; per arrivare a individuare e sentire ciò che per i più è inesistente. Tuttavia quasi tutte le persone possono afferrarle, comprenderle ed interpretarle più o meno potentemente, ed anche servirsene. E' stata definita come "l'ottava grande forza della natura", "il settimo senso", "un medium tra la materia e lo spirito".

Se in Occidente questi approcci sono sostanzialmente bistrattati e tenuti in pochissima considerazione dagli ambienti scientifici in Unione Sovietica   queste stesse discipline scientifiche venivano elevate a facoltà universitaria e nell'ex-esercito sovietico (e probabilmente nell'attuale russo) vi erano corpi dedicati allo studio e alla sperimentazione delle teorie previste dalla radionica e dalla geotecnica.

Esisteva infatti una facoltà di radionica presso l'Università di Ekaterinburg in Unione Sovietica ed è forse proprio in quella università del regime sovietico a nascere i presupposti per quello che diventerà uno dei casi più misteriosi e inquietanti di incidenti in montagna: il caso del Passo Dyatlov.

Un caso che vede coinvolti nove escursionisti, deceduti nella notte del 2 febbraio 1959 in una località di montagna nota come;, Kholat Siakhl, (nella lingua Mansi, una popolazione semi nomade di ceppo ugro finnico che abita la zona da millenni, “Montagna dei Morti”), in circostanze tuttora misteriose e che hanno generato una grande quantità di ipotesi. Da allora, la località è stata ribattezzata Passo Diatlov , dal nome del capo escursionista, Igor Diatlov.

Tutto ebbe inizio quando un gruppo di studenti dell’Istituto Politecnico degli Urali si riunì per partecipare a un’escursione attraverso gli Urali settentrionali a Sverdlovsk, oggi Iekaterinburg, guidati da un esperto conoscitore della zona, studente pure lui, Igor Diatlov. 

Del gruppo, oltre a lui, facevano parte Sinaida Kolmogorova, Liudmila Dubinina Aleksandr Kolevatov Rustem Slobodin Iuri Krivoniscenko, Iuri Doroscenko Aleksandr Solotarev , Nikolaj Tibo-Brignol Iuri Iudin 

Igor Diatlov a sinistra nella foto, il capo della spedizione

Otto uomini e due donne, appartengono praticamente tutti al Politecnico degli Urali di Ekaterinburg. Un istituto che oggi si chiama Università Tecnica Statale degli Urali, ed è intitolata a Boris “Corvo Bianco” Yeltsin. Amanti dello sci di fondo, coltivano un’altra passione comune, quella delle escursioni invernali. Viaggi molto diffusi tra giovani scienziati ed ingegneri come loro, che ne approfittano per compiere veloci ricerche sul territorio che, al ritorno, frutteranno ai loro profili accademici un buon balzo avanti rispetto ai colleghi più pantofolai.

Dei 10 membri della spedizione due, tra cui lo stesso Dyatlov, studiavano appunto la misteriosa radionica di cui abbiamo parlato prima mentre un altro, Alexander Kolevatov, si occupa di geotecnica.

Riassumento quindi abbiamo:  Igor Dyatlov, studente della facoltà di Radionica; Yuri Yudin, studente di Economia; Alexander Kolevatov, studente di Geotecnica; Rustem Slobodin,Georgyi Krivonischenko e Nikolay Tibo-Brignoles, ingegneri; Yury Doroshenko, studente di Scienze Politiche. Le uniche due donne del gruppo, Ludmila Dubinina, studente di Economia, e Zinaida (Zina) Kolmogorova, anch’essa studente della facoltà di Radionica.

Alexander Zolotarev, il decimo, è una guida professionale ed un istruttore di sci. Si è accodato al gruppo di Dyatlov per aggiungere al suo status quei punti in più che gli avrebbero garantito il titolo di Istruttore esperto, tanto ambito tra le guide russe. 

E’ l’unico estraneo al team, caldamente raccomandato ai ragazzi da un amico dell’Associazione Sportiva; un dettaglio, quest’ultimo, da non trascurare per lo svolgimento successivo delle nostre indagini.

Gli escursionisti volevano raggiungere l’Otorten una montagna dieci chilometri a nord del Kholat Siakhl, seguendo un percorso non facile, ma tuttavia alla portata dei componenti la spedizione, tutti piuttosto esperti.


Ed è così che all’alba del 27 gennaio indossano gli sci e si incamminano verso la Gora Otorten, lo sperone roccioso di un monte, il Kholat Syakhl, il quale, nel dialetto delle tribù Mansi che abitano la regione, ha il terrificante significato di “Montagna dell’Uomo Morto”.

I dieci membri della squadra rimarranno presto in nove poiché uno di loro Yuri Yudin non si sente bene, è debole e di malumore e rallenta la marcia. Non riesce proprio a stare al passo degli altri e quindi, il 28 gennaio, decide suo malgrado di rinunciare e tornare alla cittadina di Vizhay per rimettersi in forze ripromettendosi di raggiungere i compagni se e quando starà meglio. Una scelta che gli salvò la vita. 

La spedizione rimane quindi in un numero di nove persone.

Yuri Yudin

Visto e considerato il curriculum dei membri della spedizione nasce spontanea la prima domanda a cui bisognerebbe dare una risposta per potere comprendere al meglio ciò che accadde dopo ovvero quale fossero le motivazioni di quella spedizione. Si trattò davvero solo di una semplice gita? O forse vi erano scopi didattici ulteriori e segreti legati alle ricerche di radionica in una area della regione nota per essere una zona 'maledetta' secondo le antiche tradizioni popolari delle tribù indigene dei Mansi?

Il Kholat-Syakhyl e l’Otorten giocano un ruolo considerevole nel folklore Mansi  l’etimologia del secondo è “Non andare là”, mentre il primo significa “Montagna dell’Uomo Morto” in ricordo di alcuni membri della tribù periti in questo luogo in tempi immemori. Nove, per la precisione. Esattamente come i membri della spedizione Dyatlov dopo l’abbandono di Yudin.

Le leggende Mansi narrano di nove cacciatori che hanno trovato la loro morte sul Monte Kholat-Syakhyl al tempo del Diluvio: "morti di fame", "cotti a morte in acqua bollente", "periti in qualche sinistro bagliore". Da qui il suo nome, tradotto come il Monte dei Morti. I Mansi non hanno mai considerato né Kholat-Syakhyl o il vicino Monte Otorten come sacro, ovvero le montagne non sono mai state utilizzate per i sacrifici. Semplicemente la gente del luogo cerca di evitarle.

Nove, come anche le persone a bordo di un aereo che si sarebbe schiantato sul Passo con un pugno di passeggeri a bordo, anch'essi tutti deceduti, naturalmente. Inoltre da decenni la gente del luogo ha riportato resoconti incentrati su di un’insolita attività di oggetti volanti non identificati proprio tra questi monti.

Un luogo misterioso quindi... l'ideale per studenti di radionica alla ricerca di possibili conferme delle loro teorie alternative.

Tre giorni dopo l'abbandono da parte di Yudin, il gruppo dei nove si stacca dal rivo che traccia il percorso e dalla zona dei laghi ghiacciati non appena giunge in vista dei rilievi. Termina la marcia ed inizia la salita che lo condurrà sull’Otorten e, di qui, verso il Passo Ojkachahl, 100 miglia ad est di Vizhay, lambendo il corso del fiume Toshemka.

Per la fine degli anni Cinquanta, si tratta di una impresa agonistica impegnativa, di quelle che gli esperti di trekking etichettano come “Categoria III”. Pare che Dyatlov stesso l’abbia pianificata per allenarsi in vista della futura escursione che popola i suoi sogni: quella nelle regioni artiche.


Dopo poco meno di 4 chilometri di salita, i nove allestiscono un campo base ai margini del bosco, sul fianco del Kholat Syakhl. Sono le 4 del pomeriggio del 1 febbraio 1959. Non sanno, non possono sapere, che sarà il loro ultimo rifugio. Scattano fotografie, sorridono. Ammirando il paesaggio degli Urali imbiancati consumano la cena e le ultime energie, prima di ritirarsi in tenda. Alcuni crollano subito. Altri scrivono per riempire le pagine dei loro diari. Saranno le loro ultime note e si riveleranno utili per il successivo decorso delle indagini.

Infatti tutto ciò che possiamo sapere di quella triste, drammatica e misteriosa notte oltre ai testi scriti dei loro diari è frutto delle testimonianze dei soccorritori che ritrovarono i nove ragazzi ormai cadaveri e grazie agli uomini di una fondazione che ha scelto di chiamarsi proprio come lo sfortunato capo spedizione Igor Dyatlov. Un gruppo di testardi, quello creato dalla fondazione: 37 persone in tutto, la maggioranza delle quali è costituita da esperti indipendenti, non legati in nessun modo al governo un tempo in carica o a quello che, ad oggi, tiene le fila del paese. Gli altri sei membri del gruppo, invece, si riconoscono per l’età più avanzata.

E per un’ombra scura che portano sul volto. L’indizio di qualcosa di più gravoso di un cattivo pensiero. E di più insistente di un brutto sogno. Qualcosa che, soprattutto, assai difficilmente sembra coniugarsi con l’ipotesi di massima che conclude i lavori della conferenza. Conseguenza – nefasta – di un’esercitazione militare top secret. Quei sei uomini, nervosi ed invecchiati senza troppa grazia, sono i testimoni diretti.

Mikhail Sharavin ex soccorritore come altri cinque che sono là con lui, l’orrore l’ha toccato con mano.

E’ il 26 febbraio quando le squadre di soccorso di cui fa parte arrivano sul fianco orientale della Montagna dell’Uomo Morto. Sotto i loro piedi, giace in stato di abbandono quello che fino a qualche tempo prima era stato un accampamento. C’è una tenda semisepolta dalla neve. E’ quella dei ragazzi. L’equipaggiamento è quasi tutto al suo posto. Strano, abiti caldi, coperte, zaini, giacche a vento, pantaloni. Tutto. Anche la tenda sembrerebbe a posto. Peccato che su di un lato, quello sottovento, è lacerata. 

Più tardi si scoprirà che è stata tagliata, ma dall’interno. Dai brandelli di tenda che si agitano rigidi in balìa del vento gelido, parte una traccia netta che per mezzo chilometro attraversa la neve. Arriva fin quasi al bosco, dove inizia la valle del fiume Lozvy. Poi più nulla. Impronte per un totale di otto, forse nove persone. Alcune orme sono meno profonde ma più definite. Sono impronte di valenki (stivali soffici) o di calzini, forse addirittura di piedi nudi. Non può essere. A meno che non si sia trattato di un fuga. Sì, è possibile. Una fuga frettolosa.

Non è normale. A nord-est, 1500 metri dopo e dall’altro lato del passo, c’è un albero immenso. E’ un pino secolare, e nei pressi della sua base i ricercatori ritrovano tracce di legna carbonizzata, come se qualcuno avesse acceso un falò proprio in questo punto. Forse sono stati i due che giacciono nella neve qualche passo più in là. Georgyi Krivonischenko e Yury Doroshenko. Scalzi e con indosso soltanto la biancheria, sembrano adagiati su un immenso lenzuolo di neve. Una coltre sulla quale spiccano i rami che hanno addosso, spezzati dall’albero ad un’altezza di circa 5 metri da terra. 

Sulla corteccia, i primi esami rilevano tracce di pelle ed altri tessuti biologici. Uno dei ragazzi ha spezzato i rami. L’altro si è arrampicato sul pino a mani nude, forse per fuggire a una minaccia o forse per cercare di ottenere una visione migliore.. ma verso cosa?
Dall’albero si scorge quel che resta della tenda. I soccorritori iniziano a convincersi che c’è ben poco da soccorrere, e percorsi trecento metri trovano un altro cadavere. E’ Igor Dyatlov, il ventitreenne capo spedizione. Riverso sulla schiena con il capo rivolto in direzione del campo. In una mano stringe un ramo, mentre l’altro braccio è riverso sulla testa come ultimo, disperato tentativo di protezione durante una aggressione.

Per quanto si sforzino, i membri della squadra non riescono a darsi una spiegazione. Poi trovano Rustem Slobodin. A 180 metri appena, in direzione della tenda. Il viso sprofondato nella neve, sembra morto di ipotermia. Anche se una singolare frattura gli segna il cranio per un lunghezza totale di 17 centimetri. Una lesione che, secondo i patologi, non è di per sé sufficiente ad uccidere. Dalla posizione di Slobodin, che sembra essersi trascinato con le ultime forze in direzione della tenda, si scorge un altro corpo. E’ Zina Kolmogorova. Intorno al suo cadavere, parecchie tracce di quello che a buon diritto potrebbe essere sangue. Successivi esami confermano la natura del liquido, ma al contempo stabiliscono che non è quello della ragazza.

A prima vista sembrerebbero morti assiderati, le mani bruciate con tutta probabilità dal clima rigido della notte uralica. Ma nessuno di loro è morto in pace. Tutti in pose dinamiche, come se avessero lottato con qualcosa, con un’ombra, con il vento.
Siamo a cinque, ne mancano altri quattro. Non verranno scoperti fino al 4 maggio successivo, quando un incendio sviluppatosi nella valle di un affluente del Lozvy fa in modo che le autorità raggiungano una fenditura stracolma di neve che si apre nel terreno. Qui, in un crepaccio sotto 4 metri abbondanti di neve, c’è quel che resta degli escursionisti che ancora mancano all’appello.
   
Foto di repertorio – I soccorsi

Nonostante anche loro siano mezzi nudi, a confronto dell’altro gruppo hanno qualche vestito in più addosso. Potrebbe forse sembrare che abbiano prelevato qualche indumento dai compagni, magari hanno tentato di trasportarli quando erano feriti. Alexander Kolevatov e Nikolay Tibo-Brignoles, che ha il cranio fracassato ed indossa due orologi (uno fermo alle 8:14 del mattino, l’altro alle 8:39). Alexander Zolotarev presenta fratture all’emicostato destro. Ludmila Dubinina ha un piede rozzamente fasciato dai pantaloni di lana di Georgyi Krivonishenko, e presenta anche lei fratture simmetriche al costato. In questo caso, una delle costole si è conficcata in un secondo tempo nel cuore, causando una massiccia emorragia cardiovascolare dopo l’impatto. In più, a Ludmila è stata asportata la lingua. Il cappotto di pelliccia di Ludmila, insieme al suo cappello, è però indosso a Zolotarev. Eppure, nessuno presenta segni esterni di colpi. Le ultime quattro salme vengono esaminate in fretta, ed in fretta deposte nei feretri per restituirli alla terra.

Sono tutti abbronzati, bruciati. La loro epidermide è talmente infiammata da tendere all’arancione. E’ lo stesso colorito che ha visto negli altri, ritrovati relativamente subito rispetto alla tragedia e seppelliti qualche tempo prima. Ancora, i capelli di tutti sono improvvisamente diventati brizzolati. E non si è mai vista una cosa del genere in un gruppo di ventenni. Quando trapela la diceria secondo la quale gli esami forensi hanno rilevato su alcuni degli – scarsi – indumenti consistenti tracce di radioattività, come se i ragazzi avessero maneggiato materiale di questo tipo o si fossero attardati in un’area contaminata, quelle strane morti sembrano in un certo macabro modo aver più senso.

Mentre le salme vengono interrate, le autorità chiudono il caso in modo tanto rapido quanto laconico. “Decesso provocato da forza sconosciuta ed irresistibile” è la dicitura riportata su tutti i certificati di decesso, che chiama in causa una forza maggiore a tuttora sconosciuta ma che di certo non può soddisfare i tanti dubbi rimasti collegati a questo caso. Dopo tale incidente le autorità russe circoscrissero l'area inibendone l'accesso per diversi anni.

Quindi, a questo punto, abbiamo nove escursionisti accampati ai piedi di una montagna. Ma durante la notte, verso le 3 del mattino, accade qualcosa di strano, qualcosa che li ha spaventati al punto da spingerli dall'uscire dalla tenda, squarciandola con un coltello, e fuggire verso i boschi. Alcuni di loro erano seminudi, nel mezzo di una tormenta in una regione che di notte segna una temperatura media di -30°. 
La scena come si è presentata ai soccorsi è un festival di stranezze. Badate bene che le uniche impronte trovate in tutta la zona furono le loro. Nessuna impronta di elementi estranei alla spedizione nè di animali.

La tenda come è stata trovata dai soccorsi

Tutti e nove arrivarono al bosco correndo come pazzi per 1,5 km. Due di loro si arrampicarono sugli alberi fino ad un'altezza di 5 metri, con talmente tanta foga da lacerarsi le carni. Tentarono anche di accendere un fuoco. 

Si stabilì che da quegli alberi, a quell'altezza, si scorgeva la tenda che avevano abbandonato in fretta e furia. Tre di loro, giunti al bosco, decisero di tornare alla tenda. Morirono a metà strada.

Uno di loro (Igor Dyatlov, il capospedizione) fu trovato riverso sulla schiena, con un ramo nella mano destra, mentre la mano sisnistra la teneva sul capo, come per proteggersi. Poco lontano venne trovato il corpo di Rustem Slobodin, morto apparentemente di ipotermia ma con una frattura nel cranio. Pare abbia cercato di trascinarsi verso la tenda con le ultime forze che gli restavano. La terza persona era Zina Kolmogorova; trovata cadavere e circondata da tracce di sangue che non era il suo.
Una dinamica che non collima per nulla con l'ipotesi del semplice incidente di montagna o della slavina (di cui peraltro non vi è traccia alcuna nei referti delle indagini)

L’unica descrizione possibile degli eventi è la seguente: a notte fonda, qualcosa terrorizza i nove alpinisti che fuggono tagliando la tenda; alcuni di loro si riparano vicino all’albero, cercando di arrampicarvici (per scappare? per controllare il campo che hanno appena abbandonato?). Il fatto che alcuni di loro fossero seminudi nonostante le temperature bassissime potrebbe essere ricollegato al fenomeno dell’undressing paradossale; comunque sia, essendo parzialmente svestiti, comprendono che stanno per morire assiderati. Così alcuni cercano di ritornare al campo, ma muoiono nel tentativo. Il secondo gruppetto, sceso più a valle, riesce a resistere un po’ di più; ma ad un certo punto succede qualcos’altro che causa le gravi ferite che risulteranno fatali.

Dove sono stati trovati i corpi rispetto al campo e all’albero

Cosa hanno incontrato gli alpinisti? Cosa li ha terrorizzati così tanto?

Le ipotesi sono innumerevoli: in un primo tempo si sospettò che una tribù mansi li avesse attaccati per aver invaso il loro territorio – ma come abbiamo detto nessun’orma fu rinvenuta a parte quelle delle vittime. Inoltre nessuna lacerazione esterna sui corpi faceva propendere per un attacco armato, e come già detto l’entità delle ferite escluderebbe un intervento umano.

C'è chi ha ipotizzato addirittura un “abominevole uomo delle nevi” tipico degli Urali chiamato almas. l’Almasti. Una sorta di Sasquatch locale. Altri hanno addirittura scomodato gli gnomi del sottosuolo russo…

Altri hanno ipotizzato che una paranoia da valanga avesse colpito il gruppo il quale, intimorito da qualche rumore simile a quello di una imminente slavina, si sarebbe precipitato a cercare riparo; ma questo non spiega le strane ferite né il perché attardarsi all’esterno non appena resosi conto che non vi era nessun pericolo.

C’è anche chi giura di aver avvistato quella notte strane luci sorvolare la montagna.  Pare che un altro gruppo di studenti, accampato 50 km più a sud del Gruppo Dyatlov, ricordò di aver assistito all’insolito spettacolo di palle di fuoco sospese nel cielo notturno. Cosa confermata in quei mesi anche da avvistamenti analoghi fatti dal servizio meteorologico e membri dell’esercito. Si scoprì più tardi che le «palle arancioni» erano con tutta probabilità dei lanci di missili balistici R-7 da un vicino poligono missilistico sovietico anche se lo stesso procuratore capo del tempo Lev Ivanov non riuscì mai ad essere del tutto convinto di questa versione.

E nemmeno noi…



Oltre 30 anni dopo, lo stesso Lev Ivanov rivelò di aver ricevuto forti pressioni da parte dei suoi superiori per interrompere le indagini chiedendogli di mantenere il più stretto riserbo in particolare su quelle luci arancioni comparse nel che Ivanov attribuisce senza dubbio a un fenomeno UFO.

Le convinzioni di Lev Ivanov sono peraltro confermate dalla testimonianza giurata di Vladimir Karelin, uno dei membri della spedizione di soccorso il quale nella sua deposizione afferma quanto segue 

"... Mi guardai intorno con molta attenzione. La prima cosa che ho notato è che la neve lungo il pendio era più basso, come se sciolto da una temperatura elevata "

O come testimoniato da Anatoli Shumkov, leader di un altro gruppo di escursionisti durante quelle terribili notti. 

"Questa cosa” riferendosi alle luci arancioni “stava volando silenziosamente e lentamente da sud a nord, oltre il crinale degli Urali. Era incandescente e con colori abbastanza vivaci. Il modo in cui illuminava le nuvole fa pensare a un'altezza di 2,5 fino a 3 km, è stato molto strano"

Anche perché i missili, di qualsiasi natura siano, fanno un rumore forte, assordante e ben riconoscibile, io credo che se lo fossero stati, l'altra comitiva che si trovava in zona lo avrebbe fatto notare. Il comportamento della fuga lacerando la parte posteriore della tenda mi fa pensare ad un attacco "intelligente" che si è presentato dall' entrata, e se non ci sono impronte anomale al di fuori dei ragazzi ciò che è stato visto per forza doveva necessariamente lievitare in aria. Ma come è possibile tutto ciò?!

Quando poi negli anni Novanta i fascicoli dell’inchiesta furono desecretati, alcuni particolari furono pubblicati dalla stampa e ne venne fuori anche una teoria secondo cui le morti erano legate alla sperimentazione di un’arma segreta sovietica che potrebbe essere collegata agli studi di Tesla sull'etere o proprio alla tecnologia del macchinario alieno della Tunguska con cui abbiamo aperto l'articolo.

Sta di fatto che, fino a tutto il 1962, tutta l’area circostante è rimasta off-limits per escursionisti, curiosi e visitatori. Una semplice precauzione da analizzare nel contesto storico politico di quegli anni? Non dimentichiamoci che i sovietici pochi anni dopo fecero esplodere la bomba più potente della storia: la bomba Tzar e sempre in quegli anni si giocava la corsa allo spazio contro gli Stati Uniti. Normale volessero proteggere i propri segreti da curiosi e investigatori.

E qui la fantasia comincia a correre libera e vengono chiamati in causa gli alieni, oppure il KGB, servizi segreti sovietici o chissà quali altre agenzie governative di cui la guida Zolotarev sarebbe stato un agente doppiogiochista incaricato di effettuare uno scambio di documenti e altro materiale top-secret con gli Stati Uniti; il che potrebbe almeno in parte spiegare la radioattività riscontrata sui suoi abiti.

Tanta speculazione letteraria è stata fatta in merito a questo caso senza che si riuscisse a fornire plausibili risposte e motivazioni coerenti con i pochi elementi a disposizione relativamente alle cause della morte dei poveri ragazzi. Molti siti internet di carattere ufologico hanno voluto dire la loro e alcuni forum, citati alla fine dell’articolo, hanno dedicato pagine e pagine di ‘indagini’ sul caso in oggetto contribuendo a sollevare una serie di dovute considerazioni e dubbi sulle lacunose conclusioni fornite dalla versione ufficiale. 

Quegli stessi interrogativi e dubbi che ci siamo posti anche noi di Atlanticus nelle nostre personali “indagini”.

Ed è anche per questo motivo, ovvero per la scarsità di elementi e per le incongruenze nella ricostruzione dei fatti che la Fondazione Dyatlov richiede a gran voce che l'inchiesta venga riaperta e che vengano messi a disposizione della fondazione tutti quei molti documenti che risultano mancanti. 

Per questo chiede da anni senza esito al Ministero della Difesa, all’Agenzia Spaziale ed ai Servizi di Sicurezza Nazionale russi di mettere la fondazione nella condizione di consultarli con lo scopo precipuo di ottenere un quadro completo della vicenda”.
Cosa nasconde il governo russo (ex-sovietico) in merito a questo caso? Che ruolo hanno avuto le autorità sovietiche in tutto questo?  Cosa sanno che non vogliono fare sapere su ciò che accade tra quelle montagne?

Forse questa reticenza è da collegarsi ai numerosi avvistamenti presentati a suo tempo circa presunte sfere volanti luminose, avvistate sull’area tra febbraio e marzo 1959 (con un picco registrato il 17 febbraio). Abbiamo già detto di come un altro gruppo di studenti, accampato 50 km più a sud del Gruppo Dyatlov, ricordò di aver assistito all’insolito spettacolo di palle di fuoco sospese nel cielo notturno proprio la notte in cui i ragazzi perirono in quelle drammatiche circostanze e che quindi non sarebbero stati missili balistici.

Forse si trattava di un abbaglio. Magari erano soltanto illusioni ottiche, sommate alla stanchezza di una giornata pesante fra i monti. Ma quelle sfere che somigliano tanto alle descrizioni del mito dell’Olonkho volavano proprio sul Kholat-Syakhl, e quella era proprio la maledetta notte in cui i nove andarono incontro alla morte. Coincidenze? 

Seguendo questa pista, si può ipotizzare che uno dei ragazzi forse uscì dalla tenda durante la notte, avvistò l’inquietante fenomeno ed allertò gli altri affinché si affrettassero nella foresta.

Forse, ma qui andiamo ben oltre la semplice logica ipotetica, la misteriosa sfera esplose in aria mentre gli escursionisti correvano. Lasciando quattro di loro inerti al suolo e ferendo al contempo gli altri. Una versione forse azzardata, questo è vero, ma che è stata fatta propria anche da Yudin. I suoi amici sarebbero dunque inavvertitamente entrati in un luogo che doveva restare inaccessibile. 

Probabilmente, nel perimetro utilizzato per un esperimento militare supersegreto.   

Una ipotesi che non può essere validata del tutto ricorrendo unicamente ai documenti declassificati nel 1990. Semplicemente perché gli indizi fondamentali mancano, e non si dispone, ad esempio, di informazioni precise circa le condizioni degli organi interni dei ragazzi. Questi, secondo Yudin, sono stati subito prelevati ed inseriti in contenitori speciali per esami approfonditi, per poi sparire nel nulla. Lo stesso Yudin è arrivato a sostenere che le autorità militari avrebbero aperto un‘indagine sulla sparizione dei ragazzi ben due settimane prima di quella ufficiale, in data 6 febbraio 1959.

Ciascuna delle teorie proposte e suggerite presenta delle lacune e dei punti inspiegabili che fanno crollare il costrutto logico sul quale si basano. Dalla più semplice slavina che ha travolto il campo alla più recente ipotesi di “tempesta perfetta” avanzata da Donnie Eichar ed elaborata in collaborazione con ricercatori della National Oceanic and Atmospheric Administration. A provocare la tragedia, sostiene Eichar,  sarebbero stati gli infrasuoni, prodotti dai venti che spesso spirano furiosi tra queste montagne dalla particolare conformazione. E studi scientifici dimostrano che gli infrasuoni, non percepibili dall’orecchio umano, hanno un effetto sconvolgente sulla mente: provocano confusione, senso di ansia ed improvvisi attacchi di panico.

Nonostante queste molteplici teorie l’enigma, nonostante le decadi intercorse, resiste ad ogni tentativo di spiegazione. Diversi forum di carattere ufologico si sono interessati di questo caso e, seppur ovviamente senza alcuna pretesa scientifica, sembra interessante riportare alcune considerazioni di persone che comunque possono vantare alcune competenze specifiche in merito.

Come quella di un alpino che vuole rimanere anonimo e che, dopo aver partecipato a diverse spedizioni in Norvegia, confuta la teoria della slavina o del banale incidente in montagna considerandolo alquanto improbabile e ritiene fermamente che quei ragazzi siano stati spaventati da qualcosa che è entrata all'interno della tenda, inoltre segnala di come la storia della tempesta perfetta di Eichar e degli ultrasuoni sia una semplice supposizione, certamente plausibile, ma che non tiene conto del fatto che su un gruppo numeroso di individui questi non possono impazzire tutti nello stesso momento e poi che quelle ferite non possono essere spiegate con un semplice "fratture" o "deterioramento da freddo".

Altra cosa tra le tante che non torna: perché allontanarsi così tanto dalla tenda?

L’albero dove alcuni trovarono momentaneamente rifugio

Abbiamo detto che  i corpi non presentavano ferite esteriori, né ematomi o segni di alcun genere; impossibile comprendere che cosa avesse sfondato le costole verso l’interno. Una delle ragazze morte aveva la testa rovesciata all’indietro: esaminandola, i medici si accorsero che la sua lingua era stata strappata alla radice anche se non riuscirono a comprendere se la ferita fosse stata causata post-mortem oppure mentre la povera donna era ancora in vita.

Si è detto che la mancanza della lingua così come la scomparsa dei bulbi oculari potrebbero essere stati causati dall'azione di predatori nei giorni successivi alla morte... nell'inverno degli Urali? Su corpi assiderati e nascosti nella neve? E poi quali animali praticherebbero una operazione così mirata e selettiva (occhi, lingua) lasciando invece intatto il resto del corpo per nutrirsi?

E non può essere neppure l'effetto della decomposizione che sostanzialmente avrebbe dovuto bloccarsi per le gelide temperature e il conseguente congelamento di tutti i liquidi interni con relativo blocco o comunque forte rallentamento dell'azione batterica.


I soccoritori notarono anche che alcuni degli alpinisti avevano addosso vestiti scambiati o rubati ai loro compagni: come se per coprirsi dal freddo avessero spogliato i morti. 

Se fossero stati i militari sovietici sia direttamente (aggressione al campo) sia indirettamente (detonazione di arma) avrebbero presumibilmente ripulito la zona e i corpi non sarebbero stati mai più ritrovati. Inoltre rimane sempre il grande problema di come spiegare l'assenza totale di altre orme all'infuori di quella dei nove esploratori. E come spiegare l'assenza di ferite/traumi se non le terribili lesioni interne di solo alcuni dei malcapitati? Cosa voleva vedere o controllare colui che si arrampicò sull'albero da cui si scorgeva il campo a -20° sottozero? 

No... anche io sono fermamente convinto che essi siano scappati da qualcosa... ma cosa può incutere tale timore senza che lasci impronta alcuna nella neve ne sui corpi se non all'interno degli stessi sottoforma di ferite mortali?

Come diceva Artur Conan Doyle dopo aver eliminato l'impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.

Una ulteriore possibile spiegazione allora, potrebbe essere offerta proprio se torniamo a pensare agli studi e agli interessi dei membri della spedizione citati all'inizio dell'articolo e all’esistenza di luoghi maledetti descritti nella storia nei quali certe ‘energie’ sembrano manifestarsi con maggiore evidenza.

Proviamo a ipotizzare che quella montagna nasconda davvero un segreto energetico/esoterico importante e che i militari sovietici ne siano a conoscenza e siano interessati della cosa. E' possibile che il gruppo fosse stato incaricato di studiare quei fenomeni di luminescenza, ma che quella notte furono vittima degli stessi fenomeni.   Il gruppo dei dieci, tra i quali, come abbiamo detto, avrebbero potuto tranquillamente essere presenti in incognito anche elementi del KGB, cosa non così strana negli ambienti universitari dell'URSS del 1959, va apposta sul Kholat Siakhl per effettuare delle approfondite ricerche sulle energie latenti nel luogo basandosi sui teoremi della radionica e della geotecnica. Il tutto magari in incognito e senza le necessarie autorizzazioni da parte delle autorità russe (siamo sempre nell'URSS del 1959).

Yuri Yudin lo scopre e per non rimanere coinvolto in qualcosa che lo preoccupa o a cui è contrario simula una situazione di malessere tale per cui può giustificare la sua rinuncia alla spedizione.

Il resto della troupe raggiunge il passo ma i loro esperimenti effettuati in un luogo così energeticamente potente provoca qualcosa del tutto inaspettato, una intersezione tra il mondo fisico e il metafisico con conseguente comparsa di energie e forze spaventose in loco che generano un panico irrazionale, la fuga dei membri della spedizione e il successivo attacco da parte di queste entità paranormali comparse sulla scena del delitto.     


Le ultime immagini del gruppo ancora vivo...

Sotto questa chiave di lettura le seguenti parole della Kolmogorova: 

"Mi chiedo cosa ci aspetta in questa escursione. Quali nuove cose vedremo?”

annotate sul suo diario in data 23 Gennaio 1959, una settimana prima della tragedia, assumono pertanto tutto un altro significato molto più chiaro.

Nelle leggende arabe si parla di posti proibiti come il deserto del Rub' al-Khali, già noto al Progetto Atlanticus per i nostri studi sul mito di Ubar e dell’Atlantide del Deserto narrata dal popolo degli Aditi. Il deserto del Rub’al-Khali evitato dai beduini e in gran parte inesplorato, abitato da strani esseri sovrannaturali noti come i Djinn. Una figura tipica di queste leggende é “La cosa che ti segue furtiva”, un mostro invisibile che attacca gli sfortunati che si attardano nel deserto.

E fenomeni paranormali molto simili non sono nemmeno una novità nella misteriosa Russia. Abbiamo il cosiddetto “Triangolo di Molebka”, nei pressi di Kišertskij, nella Regione di Perm. Una delle prime zone geopatogene scoperte sul territorio russo. I primi accenni su questo luogo maledetto, che attrae letteralmente tutte i fenomeni paranormali immaginabili, risalgono agli anni trenta del XIX secolo.

Già allora, i contadini del posto raccontavano di strani oggetti volanti ed oggetti brillanti che vedevano intorno al villaggio di Molebka, ma il vero grande evento del Triangolo di Molebka è arrivato a metà degli anni ottanta durante il periodo di caccia invernale, quando il geologo di Perm, Emil Bačurin, notò tra la neve un cerchio di 62 metri di diametro, che poi descrisse in una dettagliata relazione. Timur Ivanzov racconta che, in seguito, vennero organizzate molte esplorazioni scientifiche nel Triangolo di Molebka, per cercare di svelarne il mistero:

“Le persone vedevano con i propri occhi piatti volare, come aerei su una pista e, per di più, con invidiabile regolarità. Sul bosco e sui campi periodicamente comparivano brillanti palle che gli abitanti del luogo denominarono 'arance di fuoco'".

Vorrei anche ricordare la sensazione di malessere che incontrano le persone arrivando nel Triangolo di Molebka: di fatto, tutti soffrono di una lunga e costante emicrania, hanno sbalzi di temperatura corporea e di pressione e il corpo si gonfia.

La “Catena dell’Orsa”, nei pressi di Žirnovskij, nella Regione di Volgograd. Questo luogo è proprio un magnete per i fulmini: violenti sfere che sorvolano i campi o potentissimi fulmini che semplicemente spezzano in due i villaggi e lasciano cicatrici sulle pietre sono eventi normali per la “Catena dell’Orsa”.

Inoltre, considerato che il suolo è contaminato e possiede una radiazione di fondo più elevata del solito e che, di tanto in tanto, animali muoiono misteriosamente, capiamo perché proprio questo luogo rientra nel nostro “tour degli orrori”. Timur Ivanzov, però, conosce ancor un altro segreto su questo posto:

“C’è un tunnel di provenienza sconosciuta, situato a una profondità di circa venti metri e dal diametro di 10-12 metri. Gli abitanti del luogo sono certi che qui si trovi una base per gli UFO o una città sotterranea di banditi, dove nascondono i tesori rubati. Oltre a ciò, da sotto terra sgorga una strana sorgente: se da un lato proviene acqua pura, dall’altra fonte esce acqua completamente avvelenata”.

Si ricorda anche il caso del radar del monte Chistop, poco lontano dal passo Dyatlov, installato nel 79 e abbandonato dopo qualche anno perché ricettacolo di mille fenomeni magnetici, incendi, cavi fusi, palle di fuoco, e altri fenomeni inspiegabili.

Se ci allontaniamo un po’ dalla Siberia e dalla Russia scopriamo che queste descrizioni hanno una certa somiglianza con il fenomeno delle luci di Hessdalen. località della Norvegia di soli 150 abitanti, in cui si ripetono fenomeni misteriosi che sfuggono a una esauriente spiegazione scientifica, nonostante approfonditi studi che vengono da anni compiuti. 

Dal 1998 una telecamera registra continuamente i fenomeni dell’area, così come un radar e un magnetometro. Sulla reale esistenza di tali luci non ci sono quindi dubbi, ma ce ne sono molti sulla loro natura. Si manifestano come luci sferiche di diversi colori e diverse forme, sia nel cielo che presso il suolo, pulsanti irregolarmente e dotate di movimento a scatti. In concomitanza di queste luci si notano perturbazioni del campo elettromagnetico. 


Luci di Hessdalen – Quali analogie con il Passo Dyatlov?

La loro dimensione va da 0,5 a 30 metri e il fenomeno ha un picco di frequenza in inverno e nelle ore dalle 22 all’1. La luminosità emessa è fino a 100 kW. Per spiegare il fenomeno è stata ipotizzata l’espulsione di particelle che genererebbero le onde radio a frequenza molto bassa rilevate. Vengono anche rilasciate sfere microscopiche leggermente radioattive rilevate poi sul terreno. Il luogo è famoso anche per le testimonianze che risalgono fin dal 1800, ma sembra che ci siano una quarantina di luoghi nel mondo ove avvengono fenomeni del tutto sovrapponibili. Che il Kholat Siakhl sia uno di questi?

Gli scienziati non sanno ancora perché sul pianeta esistono zone geopatogene e perché intorno ad esse si concentrano così tanti eventi paranormali.
Queste zone geopatogene sono state oggetto di studi da parte di Michael  Persinger le quali coniugano in modo originale, per la prima volta su solide basi scientifiche, la geofisica, quindi lo studio dell’ambiente naturale e la neuropsicologia degli stati modificati di coscienza. Esse permettono quindi di gettare nuova luce su tanti aspetti della “geografia sacra”. 

Ad esempio, anche ad un’analisi superficiale, si nota che tanti luoghi magici, in cui i sacerdoti, i veggenti o le streghe si recavano per avere visioni e predire il futuro, si trovano in prossimità di siti con caratteristiche geofisiche tali da poter creare, o aver creato in passato, anomalie geomagnetiche del tipo di quelle riprodotte da Persinger in laboratorio con il suo elmetto. Lo stesso Persinger ha preso in considerazione, da questo punto di vista, i luoghi in cui sono avvenute alcune celebri apparizioni mariane.

Paul Devereux, un ricercatore indipendente, ha registrato delle anomalie locali del campo magnetico terrestre in coincidenza con l’apparizione di luci misteriose (le cosiddette “earth lights”) nel deserto del Texas e in quello della regione di Kimberley nell’Australia Occidentale. Queste luci erano già conosciute agli abitanti indigeni di quelle zone e sono state in tempi più recenti considerate come apparizioni UFO. 

I risultati di Devereux sono in accordo con la teoria di Persinger, anzi, lo stesso Devereux, autore di numerosi libri sulla “geografia cognitiva dei luoghi sacri”, è addirittura andato nel laboratorio di Persinger per provare di persona il famigerato elmetto. Ricordiamo, infine, che anche il celebre Oracolo di Delfi si trova su una faglia tellurica e la zona è stata frequentemente soggetta a terremoti; anche se in questo caso sembra che lo stato di trance della Pizia fosse provocato dall’etilene che fuoriusciva dalle fratture nel terreno, non si può escludere un ruolo del geomagnetismo terrestre o una combinazione dei due effetti.

C’è un altro aspetto delle ricerche di Persinger da prendere seriamente in considerazione. Le tecnologie elettromagnetiche di modificazione della coscienza possono essere impiegate come strumenti per il controllo mentale da parte di eserciti, servizi segreti o organizzazioni criminali. Dai tempi della guerra fredda, sia gli USA che l’ex Unione Sovietica hanno cercato di sviluppare sofisticati metodi di controllo mentale per creare agenti segreti e assassini dotati di personalità multiple e quindi in grado di vivere una vita tranquilla o di uccidere su comando, a seconda del prevalere dell’una o dell’altra personalità. Un altro obiettivo di queste ricerche, spesso basate sull’ipnosi e sull’uso di sostanze allucinogene e delirogene, era quello di ottenere da agenti nemici catturati, tutte le informazioni in loro possesso. 

Fra le varie tecniche impiegate a partire dagli anni ’60, grazie ai progressi dell’elettronica, c’è stato anche l’impianto chirurgico nel cervello di stimolatori elettrici comandati a distanza via radio. Il principale sostenitore di questo metodo di controllo mentale è stato il professor José Delgado, autore nel 1969 del libro “Genesi e libertà della mente” (il titolo originale era Physical control of the mind). 

Più recentemente, il governo americano ha mostrato un grande interesse nello sviluppo di armi cosiddette “non-letali” ad onde elettromagnetiche. Ad esempio, armi in grado di focalizzare onde radio di determinate frequenze e intensità su un’area geografica molto limitata e di provocare così nausea, confusione e alterazioni mentali in un plotone nemico o in un gruppo di manifestanti. Alterazioni mentali che, nelle condizioni giuste, potrebbero anche assumere la forma di allucinazioni e fenomeni paranormali. 

Secondo il dottor Helmut Lammer, molti dei cosiddetti “rapimenti alieni”, diventati sempre più frequenti negli ultimi anni, sarebbero per l’appunto esperimenti di questo tipo svolti su comuni cittadini. Probabilmente, queste armi sono ancora in fase di prototipo, però sono destinate a diventare entro breve una realtà, specialmente nel nuovo scenario internazionale sempre più caratterizzato da conflitti di tipo non convenzionale.

A questo punto, è facile immaginare quali non certo tranquilizzanti applicazioni potrebbe avere l’elmetto del professor Persinger in mani poco rispettose della dignità e della libertà umana. Organizzazioni con fonti di finanziamento molto più elevate della piccola università canadese in cui Persinger lavora potrebbero cercare di sviluppare lo stesso tipo di effetti utilizzando, invece dell’elmetto, sorgenti di campi elettromagnetici in grado di agire sulle persone a distanza. Forse lo stanno già facendo con le applicazioni dell'HAARP?!

Potrebbero i nove essere caduti vittima dell'energia geo-elettromagnetica latente del luogo, nota già ai Mansi, descritta nella tradizione popolare del luogo maledetto, e amplificata dagli esperimenti effettuati dai giovani esploratori. Esperimenti collegati a progetti segreti militari sotto tutela del KGB o di altre agenzie ultrasegrete sovietiche, forse attraverso la figura di Zolotarev il quale aveva il compito di verificare e tenere sotto controllo in incognito i vari membri della spedizione e che poi è il motivo della rapida archiviazione del caso da parte delle autorità sovietiche.

Esperimenti di radionica che hanno aperto una breccia, creato una intersezione tra fisico e metafisico, facendo interagire i nove escurisonisti con qualcosa di veramente indicibile e spaventoso, scaturendo reali forze paranormali rivelatesi violente le quali hanno attaccato il gruppo generando quegli stessi effetti degli esperimenti di Persinger e conseguente panico irrazionale, fuga, combattimenti violenti e infine la morte?



Forse la risposta è celata nell'ultima foto scattata dai “Dyatlovs”. Nel 2009 i ricercatori Aleksei koskin e Yuri Kuntsevich hanno avuto accesso agli archivi del defunto procuratore Ivanov. Sei strisce di pellicola del viaggio. La telecamera "Zorkiy" con la quale è stata scattata l'immagine è stata scattata, apparteneva a Yuri Krivonischenko, ed è stata trovata nella tenda, collegato a un treppiede in casa. Cioè, negli ultimi momenti della loro permanenza nella tenda, qualcuno ha volutamente montato la macchina fotografica sul cavalletto, e fotografato qualche bruciore o incandescente oggetto.

L’ultima foto… 

Che sia stata una causa naturale, una causa fisica, o una causa metafisica non possiamo che unirci alla domanda di Yuri Yudin, l'unico superstite della sfortunata spedizione deceduto solo recentemente il 27 aprile 2013.

“… Se avessi la possibilità di chiedere a Dio una sola domanda, sarebbe: ‘che cosa è successo davvero ai miei amici quella notte?’… ”

Ci piace immaginare che nell'aldilà abbia ritrovato i suoi amici persi ormai più di 50 anni fa proprio sul Kholat Syakhl per potere completare ciò che non riuscirono a fare in vita.

Forse noi, che al momento non abbiamo la possibilità di chiedere direttamente a Dio cosa sia successo, per capire realmente quali misteri facciano capo al Kholat-Siakhl e alla morte di quei giovani ragazzi dovremmo organizzare una nuova spedizione al passo Dyatlov, composta da nove persone, e vedere se accade qualcosa di particolare... ma dopo avere letto e visto tutto questo mi chiedo chi avrebbe mai il coraggio di farlo?


Fonti:

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