domenica 1 febbraio 2015

Con più timore pronunciate la sentenza contro di me di quanto ne provi io nell’accoglierla - G.Bruno

Un rogo che arde da oltre 410 anni, quello di Campo dei Fiori in Roma dove nella fredda mattinata del 17 Febbraio 1600 fu arso vivo Giordano Bruno. Una fiamma che da allora continua a commuovere ma anche a riscaldare i cuori e le menti di generazioni di uomini che, sull’esempio di Giordano Bruno, si battono perché le ceneri dell’oscurantismo dogmatico non soffochino la libertà di pensiero e di ricerca.
AVEVA ISPIRATO ANCHE SHAKESPEARE

Bruno fu portato al supplizio dopo un processo per eresia durato ben otto anni. Otto anni in cui la Santa Inquisizione costrinse in catene (e forse sottopose anche alla tortura fisica, ma non è del tutto certo) un uomo che aveva aperto nuove frontiere del pensiero in tutta Europa, soprattutto in Inghilterra dove aveva dato un impulso determinante alla “Nova Filosofia”, nutrendo ed ispirando con le proprie idee personaggi come Bacon, Fludd, Newton ed Ashmol. Taluni studi attribuiscono a Giordano Bruno un ascendente diretto anche nell’opera di William Shakespeare.

AL SUPLIZIO CON LA “MORDACCHIA”

Una mente libera che metteva a repentaglio il controllo delle coscienze che la Chiesa pretendeva allora (ed ancora un po’ oggi) di monopolizzare. Una mente così temuta da sottoporre il povero Giordano Bruno anche all’estremo supplizio della “mordacchia”, uno strumento applicato alla bocca del condannato, che gli impediva di proferire qualsiasi parola, né urla né lamento, mentre veniva bruciato sul rogo.
Giordano Bruno morì proprio per questo: la sua libertà faceva paura, mostrava la fallacità della Chiesa (che ancora negava Copernico e la sfericità della Terra), facevano paura gli orizzonti che il suo pensiero apriva alla scienza al di là degli angusti vincoli dogmatici che la religione pretendeva di imporre. Una paura che lo stesso Bruno rinfacciò ai suoi giudici nel momento stesso in cui gli fu letta la sentenza di morte: “Forse con più timore pronunciate questa sentenza contro di me – disse – di quanto ne provi io nell’accoglierla”.

Una paura che impedisce ancora oggi alla Chiesa Cattolica di chiedere perdono per quel rogo e per quella condanna (ritenendo che per quei tempi si trattò comunque di un “giusto processo”)

NELLE MANI DEL SANT’UFFIZIO

Giordano Bruno, frate domenicano, era accusato di eresia e di aver espresso opinioni non conformi a quelle della Chiesa, su argomenti di carattere non solo dottrinale, ma anche speculativo, filosofico e scientifico, argomenti ritenuti comunque attinenti alla Chiesa.

Processato dal Sant’Uffizio (congregazione a difesa della fede fondata da papa Paolo III nel 1542), inteso come strumento repressivo di una religione che aveva scelto la via totalitaria dell’assolutismo confessionale, improntando la propria cultura giuridica ad un drastico dualismo fra ammissione di colpa o punizione, dopo otto lunghi anni di detenzione, viene condannato ad essere arso vivo.

Bruno affrontò il processo con spirito di dialettica, lo stesso spirito che aveva caratterizzato le sue lunghe battaglie in tutte le più importanti università d’Europa.

SPERAVA DI POTER “CONVERTIRE” I SUOI ACCUSATORI

Il processo a Bruno aveva come obiettivo un verdetto – qualunque fosse stato: di innocenza o di colpevolezza, comunque un verdetto – ma non sarebbe ma potuto approdare, come sognava Bruno, ad una qualsiasi riconoscimento della libertà di professare un proprio pensiero nell’ambito dell’ortodossia cattolica. Sul piano storico la Chiesa romana di allora, in fondo, non era molto dissimile nella gestione e preservazione del proprio potere dalla teocrazia iraniana di oggi.

IDEE CONTRARIE ALLA FEDE

Giordano Bruno venne processato per avere “idee contrarie alla fede”, principalmente per aver dubitato dell’ortodossia del pensiero religioso ufficiale. L’obiettivo dell’ortodossia del tempo era di recuperare socialmente gli eretici dimostrando alla collettività che essi erano caduti in errore riuscendo tuttavia a ravvedersi.


Erano processi che dovevano cercare di concludersi nel segno del riconoscimento dell’errore da parte dell’imputato, il quale rappresentava così la prova vivente che ci si può sbagliare ma che l’Ufficialità è magnanima e disposta ad accogliere la “pecora smarrita”, una volta che questa ha riconosciuto il proprio errare.

LA CHIESA NON VOLEVA UCCIDERLO, PUNTAVA ALL’ABIURA

L’obiettivo di ogni struttura antidemocratica e collettivista (i processi ai dissidenti svolti nelle dittatura comuniste ne rappresentano un altro evidente esempio) è permeata di falso paternalismo e subdolo compatimento “giacchè chi non capisce non va punito ma perdonato”, tendendo ad eliminare ogni autonomia del pensiero, prima attraverso il pentimento e perdono purchè “sinceri”, e, solo come estrema ratio, attraverso l’eliminazione fisica dell’imputato.
Tanto più la stessa ortodossia riconosce la forza del pensiero con il quale si scontra, quanto minore viene considerata socialmente impattante la sola eliminazione fisica dell’imputato, di fronte ad un ben più significativo ripudio del libero pensiero attraverso l’abiura.

VITTIMA DEL SUO ANTICONFORMISMO

La condanna di Giordano Bruno origina dal suo essere animato da interessi non settari che lo portarono a non sottoporsi alle rigide proibizioni delle norme ecclesiastiche; origina dalla sua tensione ad accostarsi senza preclusioni dogmatiche ad ogni sorta di conoscenza, anche occulta, e di collocarla in una coerente ed aperta architettura di pensiero, oltre che scaturire dalla sua natura squisitamente polemica e venata di una sorta di necessità di contestare il dogma in ogni sua forma ed espressione.

TRADITO DAL SUO OSPITE, MOCENIGO

Il processo a Giordano Bruno, sostenuto dall’inquisitore Bellarmino (lo stesso che processò Galileo Galilei), prende le mosse da due denunce di Giovanni Mocenigo, patrizio veneziano, dall’assunzione di diverse altre testimonianze a cui, per la verità, l’Inquisizione dette poco rilievo, ma soprattutto dalle pubblicazioni, innumerevoli, che il frate nolano aveva redatto nei lunghi anni della sua pellegrina esistenza.


Il processo si svolse a Venezia per una prima fase, e – vista l’importanza dell’imputato, la vastità del suo pensiero, il pericolo per il dogma da esso rappresentato – per una seconda fase a Roma, sotto il diretto controllo dell’Inquisizione Centrale e con la partecipazione personale e diretta del papa Clemente VIII (che lo stesso Bruno fece l’errore di considerare illuminato, più aperto alle nuove idee di quanto era in realtà, proponendosi perfino di incontrarlo per poterlo… convertire; ma l’incontro su cui Bruno tanto contava non ebbe mai luogo, non fu mai concesso).

DUE SOLE VIE DI USCITA

Un processo per reati d’opinione (si direbbe oggi; ieri si diceva semplicemente “per eresia”), in un ambito di assolutismo confessionale e ideologico, permette all’imputato due sole vie di salvezza: o dimostrare di non aver mai professato le opinioni imputate, o abiurarle.
Giordano Bruno mai negò d’aver professato le opinioni imputate, manifestando sempre una dissimulata volontà di abiurare, intesa tuttavia come una forma di confronto, razionale e ragionato, improntato a criteri di disquisizione filosofica: il terreno su cui sperava di salvarsi. L’Inquisizione, però, non accolse questa richiesta di confronto, risolvendo il problema in una semplice alternativa: abiura totale o condanna. Giordano Bruno, dopo 22 udienze e otto memoriali difensivi, scelse la condanna.

IL PROCESSO

Traendo spunti dai verbali del processo, dai memoriali e dalle opere di Bruno, nonché da altri scritti storici, abbiamo voluto riprodurre alcuni momenti fondamentali del “confronto” fra l’Inquisizione e Giordano Bruno. Riproducendo le varie imputazioni che gli furono mosse, e le sue parole di difesa (pur con qualche licenza “giornalistica”) cercando di essere il più possibili aderenti alla realtà storica di ciò che avvenne prima del fatidico rogo del 17 Febbraio 1600 a Campo dei Fiori (dove oggi sorge l’enigmatico monumento a Giordano Bruno, fatto ereggere nell’Ottocento dal movimento del libero pensiero, in gran parte coincidente con la massoneria italiana del tempo).

LE OTTO PROPOSIZIONI (I CAPI DI ACCUSA)

Desunte dalle denunce di Mocenigo e le rispettive difese dell’imputato.

Inquisitore: “Dite dunque chi siete, come vi chiamate”
Bruno: “Io ho nome Giordano della famiglia dei Bruni, della città di Nola vicina a Napoli dodici miglia. Nato ed allevato in quella città e la professione mia è stata di lettere e d’ogni scienza; e mio padre aveva nome Gioanni, e mia madre Fraulissa Savolina; e la professione di mia padre era di soldato, il quale è morto insieme anco a mia madre. Io son de anni quarantaquattro e nacqui, per quanto ho inteso dalli miei, nell’anno ‘48”.

1 – CONTRO LA FEDE CATTOLICA

Mocenigo: “Ho sentito dire di Bruno che alcuna religione gli piace; che il procedere della Chiesa oggi non è quello che usavano gli apostoli poiché loro, con esempi di buona vita, convertivano davvero la gente, mentre oggi si usa la forza e non l’amore; e chi non vuol essere cattolico bisogna che provi castigo e pena”.

Bruno: “Ho detto che gli apostoli facevano più con la loro predicazione, buona vita, esempi e miracoli, che con la forza che si possa fare oggi, non negando però alcun rimedio che la Chiesa possa usare contro gli eretici ed i mali cristiani”.

2 – SULLA TRINITA’, LA DIVINITA’ E L’INCARNAZIONE

Mocenigo: “Ho sentito dire da Bruno che in Dio non vi è distinzione di persone e che questo sarebbe una sua imperfezione. Ho sentito dire che era grande ignoranza e bestemmia pensare che Dio fosse trino e uno”.

Bruno: “Nella divinità intendo tutti li attributi della medesima cosa. Capisco tre attributi: potenza, sapienza e bontà, ovvero mente, intelletto e amore. Nego di aver negato che i tre attributi confluissero in un essere in carne umana. Sulla incarnazione ho avuto il dubbio che non tenesse teologicamente senza inferire contro Cristo o la divinità che si chiama Cristo. Sull’incarnazione ho detto che essendo la divinità natura infinita e l’umanità finita, quella eterna e questa temporale, non mi pareva proporzione tale da fare”.

3 – SU CRISTO

Mocenico: “Ho sentito dire da Bruno che Cristo fu un tristo che faceva cose tristi nel sedurre i popoli; che faceva miracoli solo apparenti; che era un mago e che mostrò a tutti di morire malvolentieri”.
Bruno: “Ho detto che sono testimonio della divinità, ma maggiore testimonio di essi è la legge evangelica appresso di me. Ho tenuto che i miracoli fussero veri, reali e non apparenti né mai ho pensato neanche detto cosa in contrario di questa”.

4 – SULLA TRANSUSTAZIONE

Mocenigo: “Ho sentito dire dal Bruno che è una bestemmia grande quella dei cattolici di dire che il pane si transubstanzi in carne; e che Bruno stesso sia inimico della Santa Messa”.
Bruno: “Se anche per molti anni sono stato con calvinisti, luterani ed altri eretici, non ho mai dubitato del sacramento della messa né di altri sacramenti. Ho avuto la stima di essi perché ho trattato di materia di filosofia né mai ho permesso che si trattasse d’altro”.

5 – SULL’ESISTENZA DI MONDI INFINITI

Mocenigo: “Ho sentito dire dal Bruno che sono infiniti i mundi e che Iddio ne ha infiniti perché ne vuole quanti ne può”.

Bruno: “Io tengo ad un infinito universo, cioè effetto della divina infinita potenza perché stimavo cosa indegna della divina bontà e potenza che, possendo produrre molti altri mondi, producesse un solo mondo finito. In questo universo metto una provvidenza universale, per la quale ogni cosa vive, vegeta e si muove e sta nella sua perfezione, nel modo con cui è presente l’anima nel corpo; e intendo ancora che Dio, per essenza, presenza e potenza è in tutto e sopra tutto, non come una parte ma come anima, in modo inesplicabile”.

6 – SULLE BESTEMMIE, L’ANIMA DELL’UOMO, GLI ANIMALI

Mocenigo: “Gli ho sentito dire Potta di Cristo, e una volta essendosi corrucciato con un servitore gli ho sentito dire nientemeno che Cristo Becco, Cane Becco. Gli ho sentito dire che le anime passano da un animale in un altro e che, come nascono animali bruti di corruzione, così anco gli uomini. Egli afferma di essere già stato molte volte in questo mondo e molte altre volte vi tornerà anche dopo la sua morte”.

Bruno: “Ho nominato a volte il nome di Dio invano soggiungendo ingiurie contra chi avea collera ma non per ingiurie dirette contro il Santo. Ho tenuto che le anime siano immortali e che siano sostanze sussistenti e che, cattolicamente parlando, non passino da un corpo all’altro, ma vadino o in paradiso o in purgatorio o all’inferno”.

7 – SULL’ARTE DIVINATORIA

Mocenigo: “Giordano Bruno dice di voler attendere all’arte divinatoria, perché si vuole far correre dietro da tutto il mondo… “.
Bruno: “Ho ben detto di voler studiare l’astrologia per vedere se avea verità o conformità alcuna. Ho posseduto illecitamente senza licenza alcuni libri ma stimo che la scienza è di genere buono e presso gli uomini santi e giusti; la scienza è come una spada, che sta male in mano ad uno scellerato ma potrebbe star bene in mano di un uomo timorato di Dio”.

8 – SULLA NON PUNIBILITA’ DEI PECCATI E SUL PECCATO CARNALE

Mocenigo: “Ho sentito dire dal Bruno che non vi è punizione dei peccati e che il non fare agli altri ciò che non vorresti essere fatto a te, basta per ben vivere. Mi disse inoltre che gli piacevano tanto le donne, e che si meravigliasse perché la Chiesa ne proibisse, diciamo, il loro uso naturale”.
Bruno: “Dico che siano necessarie per la salvezza delle anime e ho detto qualche volta che il peccato della carne in genere era il minore dei peccati e che la fornicazione sia tanto leggiero che fosse vicino al peccato veniale”.

IL RIFIUTO DELL’ABIURA

Giordano Bruno: “Dico che non devo né voglio ritrattare e che non ho da ritrattare e che non ho materia di ritrattazione e che non so su cosa debbo ritrattare”.

LA SENTENZA DI CONDANNA
“Giordano Bruno, eretico impertinente, ostinato, impenitente e perciò essere incorso in tutte le censure ecclesiastiche e pene dalli sacri canoni, leggi e costituzioni, di qui condanniamo ad essere scacciato dal nostro foro ecclesiastico e dalla nostra santa ed immacolata chiesa della cui misericordia ti sei reso indegno. Ti rilasciamo alla Corte secolare del Governatore di Roma perché ti punisca, pregandolo però di mitigare il rigore della pena che non sia pericolo di morte o di mutilazione.
Ordiniamo che tutti i libri scritti dal frate siano guasti e abbrugiati, posti all’indice” (i membri della Chiesa non potevano uccidere o far direttamente uccidere. La formula di mitigazione della pena era quindi un ipocrita artifizio legale, proprio di ogni sentenza di morte, e produceva infatti l’automatica esecuzione dell’imputato, dipendendo l’Autorità civile direttamente da quella religiosa).

LE ULTIME PAROLE DI GIORDANO BRUNO

“Forse con più timore pronunciate la sentenza contro di me di quanto ne provi io nell’accoglierla”

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