venerdì 20 luglio 2012

Atlantide e i Celti


Tutti noi conosciamo il mito di Atlantide come ci è stato tramandato da Platone. Questo mito si salda ad una serie di narrazioni tradizionali nell’area centroeuropea che parlano di favolose terre scomparse o diventate irraggiungibili per i comuni mortali: Avalon, Ys, Lyonesse nell’area celtica, Thule e Asgard, per i Germani. Qualcuno, del resto, ha collegato il mito di Atlantide a quello mediorientale del Diluvio Universale (del quale la versione ebraica che compare nella bibbia è la più nota, ma certamente non la più antica né la più elaborata dal punto di vista letterario, si pensi alla versione numerica contenuta nel mito di Gilgamesh).

Ora, tutte le volte che si cerca di stabilire una connessione fra queste narrazioni, ci s’imbatte sempre nella medesima difficoltà: si tratta delle reminiscenze di un unico evento o non piuttosto del ricordo di eventi di natura locale avvenuti in luoghi e tempi diversi? In fin dei conti, anche in epoca storica non mancano esempi di alluvioni, di diluvi, d’inondazioni che al livello delle popolazioni che li hanno vissuti, potrebbero essere stati percepiti come “universali”.

Occorre rilevare poi che la geologia e la tettonica a zolle non offrono alcun appoggio al mito di Atlantide se lo prendiamo alla lettera secondo quella che ne è la versione più diffusa e comune, ossia supponendo l’esistenza in un’epoca non lontana da quella che consideriamo storica – tra quindici e dodicimila anni fa – di un continente perduto o di un’isola di grandi dimensioni nell’oceano Atlantico davanti alle Colonne d’Ercole (ma è tutto da verificare se le Colonne d’Ercole come le intendeva Platone, o meglio come le intendevano coloro di cui Platone ha tramandato la testimonianza, coincidano effettivamente con la loro identificazione odierna, lo stretto di Gibilterra).

A quanto pare, già alcuni milioni di anni fa, prima dei più lontani albori della nostra specie, l’oceano Atlantico non era molto diverso dalla sua configurazione attuale. Certo, la tettonica a zolle ci insegna che le placche continentali e gli oceani cambiano la loro conformazione, che nuove terre emergono ed altre sprofondano, che i continenti si allontanano e si avvicinano, che gli oceani si allargano e si restringono, ma occorre considerare una scala temporale di decine di milioni di anni per vedere mutamenti apprezzabili.

A prescindere dalla scala dei tempi, il mito di Atlantide così come è solitamente formulato sarebbe forse più credibile se la faglia che si trova al centro della famosa doppia catena nota come dorsale medio – atlantica non fosse una faglia di espansione ma di subduzione della crosta terrestre. Poiché le dimensioni del nostro pianeta rimangono uguali nel tempo, è abbastanza evidente che a faglie di espansione nelle quali si forma nuova crosta terrestre ed i cui bordi si allontanano, debbano corrispondere altrettante faglie di subduzione, nelle quali uno dei due bordi della faglia – che sono i margini di due zolle tettoniche che vengono a contatto – sprofonda sotto l’altro; se così fosse, potremmo anche ipotizzare che Atlantide si trovasse sul bordo sprofondato della faglia, sempre ammesso di poter far quadrare la scala dei tempi, se sorvolare sul problema di come un tale inabissamento, lentissimo sulla scala umana, potrebbe coincidere con la catastrofe improvvisa descritta da Platone, ma la faglia medio – atlantica non è una faglia di subduzione.

Tuttavia c’è un senso nel quale il mito di Atlantide acquista una nuova ed imprevista credibilità. Molti storici si sono soffermati sulla circostanza, davvero bizzarra, che le grandi civiltà umane iniziano tutte improvvisamente, in assoluta indipendenza l’una dall’altra ma in sorprendente sincronia, in una data posta grosso modo attorno al 3000 avanti Cristo, 5000 anni fa, come se un inimmaginabile starter avesse sparato un colpo di pistola: le civiltà mediterranee egizia e mesopotamica, la civiltà cinese, quella indiana, quelle dell’America precolombiana.

Una simile coincidenza la cui casualità sarebbe in effetti ben poco credibile, avrebbe in realtà una spiegazione ragionevole e relativamente semplice: tra quindici e dodicimila anni fa sarebbe terminata l’ultima età glaciale. Non si può pensare però che il mutamento del clima possa aver determinato lo scioglimento istantaneo dell’immensa calotta glaciale che si era accumulata nel frattempo; è ragionevole supporre che tale scioglimento abbia richiesto migliaia di anni. Nel corso di questo lasso di tempo il livello dei mari sarebbe continuato ad aumentare a causa della quantità d’acqua che progressivamente ritornava allo stato liquido.

Consideriamo che gli uomini hanno sempre avuto la tendenza ad insediarsi in prossimità delle coste, a creare qui le città e gli insediamenti maggiori, soprattutto perché nell’antichità le vie d’acqua erano in pratica le uniche vie commerciali disponibili. Dei cavalieri montati potevano percorrere rapidamente grandi distanze nell’entroterra, ma far viaggiare delle merci era tutt’altra faccenda. Fino all’invenzione dell’attacco a collare del cavallo da tiro avvenuta attorno al 1000 d. C. e la ferratura, anch’essa invenzione di età medievale, non c’era modo di far viaggiare via terra grandi quantitativi di merci in tempi relativamente rapidi ed in condizioni economicamente convenienti (1), ma ancora oggi le nostre metropoli, le città più grandi del pianeta, sono città costiere, ed è stato calcolato che un aumento del livello dei mari di non più di tre metri sarebbe sufficiente a distruggere la nostra civiltà e gran parte delle sue vestigia.

A questo punto è facile comprendere che l’arretramento delle linee di costa conseguente al progressivo aumento del livello dei mari avrebbe comportato la sommersione e l’abbandono degli insediamenti più antichi, fino a quando, cinquemila anni fa, attorno al 3000 avanti Cristo, il livello degli oceani e dei mari interni avrebbe smesso di aumentare, generando così l’impressione della comparsa improvvisa e contemporanea di civiltà complesse ed altamente organizzate in varie parti del mondo, cività ciascuna delle quali aveva probabilmente alle spalle una storia precedente andata sommersa.

Aggiungiamo un’ulteriore ipotesi: che parte almeno delle antiche culture europeo – mediterranee sia collegabile ad una civiltà madre le cui vestigia sono andate sommerse. Questa ipotesi sarebbe riferibile alla narrazione platonica del mito di Atlantide?

Platone ci dice che Atlantide era un’isola posta oltre le Colonne d’Ercole “Più grande dell’Asia e della Libia messe insieme”. Una dimensione spropositata se consideriamo che l’Asia è il continente più vasto di questo pianeta, ma “Asia” per gli antichi Greci significava semplicemente la penisola anatomica, la parte occidentale dell’odierna Turchia, mentre “Libia” era la fascia costiera del Maghreb, eventualmente con il massiccio dell’Atlante, ma escludendo la distesa sahariana alle spalle di esso, ed a loro sconosciuta. Le dimensioni della supposta Atlantide diventano allora, come si vede, ben più ragionevoli.

Per i Greci dell’età classica, le Colonne d’Ercole coincidevano con lo stretto di Gibilterra, ma tale identificazione vale anche per i Greci più antichi? Platone riferisce che il mito di Atlantide gli sarebbe stato narrato dal nonno Solone, il famoso legislatore ed uno dei Sette Savi, che l’avrebbe appreso in Egitto dai sacerdoti, come parte di una tradizione antichissima di cui i Greci avevano perso memoria.

Diversi studiosi hanno osservato che sia la costa europea sia quella africana in prossimità dello stretto di Gibilterra si presentano come piuttosto basse ed assai poco adatte ad essere descritte come “colonne”, descrizione che invece si attaglierebbe bene al promontorio calabro ed a quello siciliano che formano lo stretto di Messina. L’ipotesi che viene fatta al riguardo, è che tale denominazione risalga all’età micenea (i Micenei raggiunsero quasi certamente la Sicilia, e tracce di un loro insediamento sono state ritrovate a Lipari), per poi perderne la nozione durante il cosiddetto “medioevo ellenico”, il periodo di regresso conseguente all’invasione dorica.

Nell’età classica, essi non avrebbero più potuto identificare le Colonne d’Ercole, i “confini del mondo” con quello che in seguito alla loro espansione ad ovest ed alla nascita della Magna Grecia era diventato “il giardino di casa”, e le avrebbero spostate molto più ad occidente.

Se questa ipotesi è corretta, allora Atlantide si sarebbe potuta trovare in qualsiasi punto fra il Tirreno e le Isole Britanniche.

Riletto in questa chiave, il mito platonico appare molto più credibile, ma cosa ci dice al riguardo l’archeologia? Esistono le tracce di una cultura antica diffusa in vaste zone dell’Europa e del Mediterraneo che, per le modalità della sua diffusione faccia pensare ad un’espansione soprattutto marittima, e che sia sufficientemente antica da poter essere considerata la civiltà madre delle varie culture sorte più tardi nell’area europea e mediterranea?

La risposta a questa domanda è nettamente affermativa. Stiamo parlando, la cosa dovrebbe essere abbastanza chiara, della cultura conosciuta come megalitica, caratterizzata dall’edificazione delle grandi strutture in pietra note come menhir, dolmen, cromlech. Questo tipo di strutture è diffuso in una fascia mediterranea che attraversa il mare nostrum lungo un’asse est – ovest che va dal Libano alla Penisola Iberica, tocca l’Italia meridionale, ha un centro particolarmente importante nell’isola di Malta, poi risale le coste atlantiche dell’Iberia e della Gallia e raggiunge le Isole Britanniche dove si trovano non solo complessi megalitici di particolare importanza come Avebury e Stonehenge, ma menhir, dolmen e cromlech sono particolarmente diffusi nelle Isole Britanniche, nonché in Bretagna sulla costa atlantica della Gallia.

Questa cultura megalitica fu probabilmente spazzata via nel Mediterraneo già in epoca preistorica, lasciando dietro di sé solo la grandezza muta dei suoi monumenti, e vari indizi fanno pensare ad un’estinzione improvvisa e violenta della cultura megalitica nell’area mediterranea, in particolare a Malta, probabilmente in seguito all’invasione di nuovi popoli. Soprattutto le statue della Grande Madre deliberatamente decapitate e sepolte per esorcizzarne il potere, fanno pensare all’invasione ed alla conquista dell’isola da parte di popolazioni rivali.

Il culto della Grande Madre associato ai megaliti si trova anche presso popolazioni sicuramente protoceltice o celtiche, ad esempio nell’area della Val d’Assa.

Nel pantheon celtico la Grande Madre ha diverse incarnazioni: Epona in primo luogo e probabilmente Brigit; ad ogni modo la religione celtica, come quella pagana classica, era lontana dall’idea semitica ebraico – cristiano–islamica della divinità esclusivamente maschile e dal relativo disprezzo della donna e demonizzazione della sessualità.

Nelle Isole Britanniche, a differenza di quanto avvenne nell’area mediterranea, la cultura megalitica fu assorbita e fatta propria dalle popolazioni celtiche che vennero a contatto con essa, sopravvivendo in qualche modo alla conquista romana, alla diffusione del cristianesimo, persino alla fine dell’età antica.
Ancora nel V secolo della nostra era, la leggenda arturiana è connessa al ruolo sacro attribuito alle “grandi pietre”. A Stonehenge, il complesso megalitico della piana di Salisbury, è attribuito il ruolo di insolito monumento funebre di re Artù e dei suoi cavalieri, e si noti che la leggenda attribuisce la sua edificazione a Merlino mediante la magia – particolare molto importante – sottraendo magicamente le pietre da un precedente monumento megalitico in Irlanda.

Senz’altro non si può escludere che sia stato il concetto del cromlech ad ispirare l’idea della Tavola Rotonda con un probabile anello di congiunzione intermedio rappresentato dall’usanza delle tribù celtiche di tenere le assemblee tribali sedendo in cerchio, appunto, all’interno di un cromlech.

Occorre però segnalare una difficoltà importante per identificare l’Atlantide megalitica con l’Atlantide platonica.

Le regioni dell’Europa e del Mediterraneo sommerse dall’innalzamento dei mari conseguente alla fine della glaciazione sono molte, e non vi sono indizi al presente che consentano di localizzare quella in cui deve aver avuto origine la cultura megalitica, la patria sommersa degli Atlantidi. Ne citiamo qualcuna: il ponte di terra che un tempo esisteva fra la Turchia e l’Europa, e che univa il Mar di Marmara, il Bosforo, i Dardanelli; una vasta estensione di terra allora emersa che univa quasi la Tunisia alla Sicilia; la parte settentrionale di quello che è oggi l’Adriatico; un’unica grande isola che si estendeva là dove oggi si trova l’arcipelago delle Baleari; in Atlantico l’area della Manica che era emersa durante l’età glaciale ed univa le Isole Britanniche al continente – alcuni autori identificano questa terra oggi invasa dall’oceano con la Lyonesse delle leggende celtiche - ; nel Mare del Nord il Dogger Bank, la regione di acque basse nota per la sua pescosità ed un tempo sicuramente emersa: ancora oggi i pescatori trovano i resti di quelli che un tempo furono rami di alberi impigliati nelle reti sollevate dal fondale.

Come si vede, c’è l’imbarazzo della scelta, ed è un grave imbarazzo.

Al momento non c’è modo di risolvere questo problema, e lo lasceremo in sospeso, vi sono però due questioni alle quali è possibile cercare di abbozzare una risposta:
1. Quali popoli, quali aree, quali culture furono quelle maggiormente interessate, conservarono, si può dire, i frammenti dell’Atlantide megalitica?
2. Quale rapporto esiste nello specifico fra essa ed i Celti?

Se noi osserviamo una carta geografica che riporta la disposizione dei monumenti megalitici, vediamo che essi disegnano una specie di “L” con il fulcro nella Penisola Iberica, da Baalbek in Libano attraverso Malta e l’Italia meridionale, risalendo poi la costa atlantica attraverso la Gallia, le Isole Britanniche fino alle Orcadi che ne rappresentano la propaggine più settentrionale.

Per quanto riguarda l’Italia meridionale, abbiamo la testimonianza rappresentata dal dolmen di Minervino (Bari), non si tratta però di una testimonianza isolata. Nell’articolo I pagani sono ancora fra noi (“Focus”, agosto 2005), Franco Capone menziona un culto rivolto a grandi pietre di forma fallica (menhir) nell’area di Isernia, un’area luogo di culto di origine preistorica. Non è tutto: nel Gargano si sono conservate le tracce di un culto dei morti ricordati nella notte dell’equinozio d’autunno che presenta forti analogie, per non dire una sostanziale identità con la celebrazione celtica di Samain (o Samhain). 

Monumenti megalitici, c’informa ancora l’articolo di Franco Capone si trovano anche a Calimera (Lecce) fra cui un singolare masso forato attraverso il quale i devoti dovevano passare replicando l’atto della nascita, cosa che ci rimanda un’altra volta al culto della Grande Madre.

Gli evidenti riferimenti alla sessualità contenuti in questo culto, così come l’aspetto od il significato fallico dei menhir – analogamente ai ligam indiani - non ci devono stupire né tanto meno scandalizzare: nelle antiche religioni non semitiche, il sesso non era demonizzato, ma considerato un aspetto fondamentale dell’esistenza.
Naturalmente, quando parliamo di megaliti, non facciamo riferimento a qualsiasi costruzione realizzata con pietre di grandi dimensioni, ma intendiamo riferirci ad una precisa tipologia di monumenti dalla quale, ad esempio, sono escluse sia le piramidi egizie sia le zigurrat mesopotamiche.

C’è forse però in Egitto un edificio che si può considerare megalitico, si tratterebbe di un edificio di età sicuramente anteriore al periodo dinastico, l’Osireion di Abido, sopra il quale è stato edificato il tempio di Seti I. Teniamo presente il quadro cronologico: i complessi megalitici delle Isole Britanniche, probabilmente di poco posteriori a quelli maltesi, avrebbero un’età di 800 – 1000 anni più antica delle piramidi, e verrebbero quindi ad essere coevi dell’Osireion, se è corretta l’antichità attribuitagli.

Può sembrare strano che indizi importanti circa il passato, soprattutto se remoto di migliaia di anni, si possano ricavare dalla linguistica, ma le lingue che noi parliamo non sono delle costruzioni convenzionali, bensì il prodotto di un’interazione fra culture e gruppi umani che si perde nella notte dei tempi, antica quanto l’uomo stesso. Sostrati, prestiti da una lingua all’altra, contaminazioni, rendono il linguaggio non diverso da un sito archeologico che conserva informazioni altrimenti perdute sul passato, e la parte più conservatrice del linguaggio è senza dubbio la toponomastica.

Per fare un esempio molto chiaro e ben noto, osservando una carta geografica degli Stati Uniti, i nomi delle località: delle città, dei monti, dei fiumi, degli stati, conservano in modo evidente sia le tracce delle lingue amerindie estinte, sia per quanto riguarda il sud degli “States”, della passata dominazione spagnola. 
C’è un termine, usato principalmente come toponimo, che ricorre con frequenza sospetta in tutta l’area della nostra Atlantide megalitica: una radice che suona come (H)EBR- o (H)IBR-.

In Medio Oriente troviamo ovviamente gli Ebrei, ma non solo, menzioniamo Hebron, poi ancora gli Eboriti (popolazione insediata in Palestina prima di Cananei ed Ebrei, alla quale pare si debba l’introduzione dell’agricoltura nella regione), forse la stessa radice diventa Ebla e, con l’inversione delle due consonanti, Arabia, Arabi. In Egitto troviamo menzionati fra i “popoli del mare” che invasero “Le due terre”, gli Habiru.
In Occidente troviamo (H)iberia, la Penisola Iberica, (H)ibernia, antico nome dell’Irlanda; sempre nella Penisola Iberica il fiume Ebro, poi ancora nelle Isole Britanniche Eburacum, l’antico nome della città di York, e le isole Ebridi. In Grecia, non riferito alla toponomastica, troviamo forse l’indizio più interessante, la parola “ybris” dal doppio significato di “sangue misto” (da cui “ibridi”) e di “orgoglio”, “superbia” solitamente dagli esiti catastrofici. Un etimo diverso ma che rafforza lo stesso quadro, è rappresentato dalla sorprendente omonimia fra il sito archeologico bretone di Carnac e quello egizio di Karnak.

Come dobbiamo interpretare tutto ciò? Con ogni probabilità la catastrofe dell’Atlantide megalitica, la sua progressiva sommersione non fu un processo assolutamente lineare, conobbe delle accelerazioni, almeno un’accelerazione catastrofica compatibile con il racconto di Platone, ma fu un processo abbastanza graduale da consentire a molti di mettersi in salvo, fondando colonie sparpagliate in una vasta area del Mediterraneo e delle coste atlantiche dell’Europa, dove avranno portato o cercato di ricostruire la loro cultura megalitica o quello che ne rimaneva.

Spesso costoro avranno dato alle colonie il nome della madrepatria o saranno stati identificati con il loro antico nome etnico. Molte di queste colonie saranno state assorbite o distrutte dai popoli vicini, ma, questo è un meccanismo che si vede all’opera altre volte nella storia più recente, quando una popolazione barbarica sottomette o soppianta una cultura superiore, tende a presentarsene come l’erede e la continuatrice.

Un esempio tratto dalla storia più vicina a noi illustra bene questo processo. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, i bizantini continuarono a chiamare se stessi Romaioi, “Romani”, i veri ed i soli eredi di Roma, identificando gli occidentali come Visigoti e Longobardi ancora mille anni più tardi, quando l’Occidente non si poteva più di certo considerare barbarico, ma non finisce qui. Quando i Turchi invasero l’Anatolia ed i Balcani, eliminando quasi l’impero bizantino che si ridusse alla sola Tracia orientale, chiamarono il loro sultanato (il primo sultanato turco, quello dei Selgiuchidi, poi distrutto dai Mongoli, prima che ai discendenti di Selgiuk si sostituissero quelli di Othman, gli Ottomani), Ar – Rhum, ossia sultanato “di Roma”, “dei Romani”, il nome era sopravvissuto sebbene i Turchi con Roma non avessero palesemente nulla a che spartire né in termini antropologici né culturali. Nello stesso tempo la Germania si faceva chiamare Sacro Romano Impero e c’erano (e ci sono ancora oggi) anche la Romania e la Romagna. Così, analogamente, non dovremmo stupirci della sopravvivenza di toponimi che si rifanno probabilmente all’Atlantide in luoghi e presso popoli del tutto diversi.

L’indizio più interessante, però, ci è dato dalla parola greca hybris verosimilmente risalente alla stessa etimologia.

Probabilmente essere “ibridi”, “di sangue misto”, poter vantare almeno in parte, o magari vantare senza fondamento, un’ascendenza atlantide era per le aristocrazie delle tribù e delle città – stato post – diluviane il massimo titolo di orgoglio, anche se al termine si associava il concetto che l’orgoglio eccessivo è prima o poi punito dagli dei, che è probabilmente una reminiscenza della catastrofe che aveva colpito la madrepatria atlantide.

Come si pongono i Celti in relazione a tutto ciò, poiché è probabile che essi non fossero né i diretti discendenti di Atlantide né i creatori originali della cultura megalitica? Furono probabilmente coloro che più di ogni altro assimilarono la cultura megalitica e la continuarono fin addentro all’età storica.

Il dato più interessante, però, è con ogni probabilità un altro: vi sono buoni motivi per ritenere che i Celti non si limitarono a rinvenire i megaliti, utilizzarli nelle loro cerimonie, replicarli a loro volta, ma è possibile che aspetti importanti della loro cultura abbiano un’origine atlantide, a cominciare dal più importante di tutti, la religione, il druidismo.

Su chi fossero i Celti, non abbiamo molti dubbi: sappiamo che le lingue celtiche appartengono al ramo occidentale delle lingue indoeuropee. Oggi noi abbiamo spesso a che fare con popolazioni come gli Afroamericani, che parlano inglese, lingua anglosassone del ceppo germanico, ma i cui geni provengono dall’Africa subsahariana, oppure i Peruviani, amerindi che parlano lo spagnolo ma la cui impronta genetica proviene solo in minima parte, o per nulla, dalla Penisola Iberica, ma per quanto riguarda il mondo antico la corrispondenza fra lingua ed etnia è quasi sempre sicura, comincia a divenire meno netta solo con i grandi imperi, quando la lingua dei dominatori viene imposta a popolazioni diverse.

Con ogni probabilità, le popolazioni indoeuropee dalle loro sedi originali nell’Europa centro – orientale, si divisero nei due rami occidentale ed orientale, distinti da particolarità linguistiche (lingue del “centum” e lingue del “satem”). Il primo gruppo s’irradiò verso l’occidente e il sud, differenziandosi nelle popolazioni celtiche, germaniche, latine, elleniche; il secondo originò gli Slavi ed alcune popolazioni oggi estinte (Sciti, Sarmati, Tocari), ed un ramo di esso, probabilmente muovendo verso sud e sud – est dalla regione aralo – caspica, colonizzò l’Altopiano Iranico e l’India.

Oggi l’idea che la regione indo – iranica fosse la sede originaria dei popoli indoeuropei, derivata dal fatto che in quest’area abbiamo le più antiche lingue indoeuropee scritte, il sanscrito e l’avestico, è generalmente respinta dagli studiosi.

Sembrano esserci ben pochi dubbi sul fatto che i Celti giungessero nelle loro sedi storiche migrando prevalentemente per via di terra. Ancora all’epoca di Cesare, quella celtica era una cultura essenzialmente non marinara. I migliori marinai della Gallia erano all’epoca una popolazione non celtica stanziata alla foce della Loira, i Veneti o Vendi (che hanno dato il nome alla regione da loro abitata, Vendee, in italiano Vandea), strettamente imparentati con i Veneti che s’insediarono nell’alto Adriatico.

Tutto ciò propende fortemente contro l’ipotesi che i Celti fossero i portatori originari della cultura megalitica. Tranne che nelle Isole Britanniche, la diffusione dei megaliti è essenzialmente costiera, fa pensare a un modello d’insediamento analogo a quelli realizzati nel Mediterraneo in epoca storica dai Greci e dai Fenici.
Questo ci porta a porci una domanda: chi ha colonizzato le Isole Britanniche prima dei Celti?

La più antica colonizzazione sembra avvenuta in epoca neolitica da parte di una popolazione di origine verosimilmente mediterranea di pastori ed allevatori di colorito scuro e di bassa statura. Questa popolazione sostrato che è stata man mano assorbita o ricacciata verso le parti più marginali del suo antico dominio, è stata identificata con i Pitti, termine probabilmente improprio, poiché in latino “Picti” significa “dipinti” e faceva riferimento all’uso – comune agli stessi Celti – di dipingersi la faccia prima di scendere in battaglia (uso tramandato, si ricorderà, fino a Bravehearth).

Diversi anni fa, nel corso di una simpatica intervista televisiva, il cantante Paul McCartney, ex membro dei Beatles, raccontò di essere particolarmente benvoluto da molti conoscenti per l’usanza di andarli a trovare il primo dell’anno, e nelle Isole Britanniche vige la credenza che incontrare uno scozzese a capodanno porti fortuna per l’anno che inizia, e l’autentico scozzese – ci tenne a precisare – lo scozzese di puro sangue è bruno come lo stesso McCartney; è cioè un pitta, potremmo dire noi, ed osserviamo come questa tradizione rifletta la persistenza dell’idea del pitta come uomo legato ai poteri magici.

I Pitti apparivano come uomini “magici” per uno stile di vita più elementare, maggiormente in contatto con le forze telluriche ancestrali o perché già influenzati dalla cultura atlantico – druidica? Una domanda a cui sarebbe bello poter rispondere, anche se notiamo che ci può essere una sovrapposizione fra le due cose, e che ad esempio, periodi di isolamento dal contesto umano, trascorsi nelle selve a contatto con le manifestazioni elementari della natura, facevano parte dell’iniziazione di un druido.

Ad ogni modo, poiché sembrerebbe trattarsi di una popolazione o di un insieme di popolazioni dedite principalmente all’allevamento, alla pastorizia, a forme di agricoltura semistanziale, quindi le Isole Britanniche dovevano essere oggetto di un popolamento piuttosto rado che deve aver permesso ai superstiti atlantidi di trapiantarvi e mantenervi la loro cultura senza difficoltà, ed in effetti le Isole Britanniche divennero la seconda patria della cultura megalitica.

I Celti, giunti sulla costa atlantica, non colonizzarono la Britannia che piuttosto tardi: a lungo essa fu percepita come “Glas Myriddin”, il “recinto di Merlino”, sacro e di conseguenza tabù.

Noi conosciamo il termine “Myriddin”, “Merlino” come nome proprio del mago mentore di Artù nel V secolo, ma è probabile che esso in origine fosse un nome comune, designasse “l’uomo sacro”, e potremmo tradurre “Glas Myriddin come “L’isola dall’uomo sacro” o “degli uomini sacri”. Probabilmente il Merlino delle saghe arturiane non è stato che l’ultimo di molti Myriddin che si sono succeduti attraverso i secoli e i millenni. Anche dopo la colonizzazione celtica della Britannia continua a persistere il mito dell’isola sacra, irraggiungibile ai comuni mortali e spesso invisibile, che prende il nome di Avalon.

Ad un certo punto i Celti cominciano ad insediarsi in Britannia, come se fosse stato concesso un permesso o tolto un divieto, ed a questo punto succede qualcosa di estremamente importante che modifica la cultura delle popolazioni celtiche al di qua ed al di là della Manica: si diffonde la religione druidica.
Nel De bello gallico di Cesare abbiamo una testimonianza su cui non si è forse riflettuto a sufficienza. Cesare dice che la religione druidica “fu scoperta” in Britannia e da qui si estese alla Gallia continentale. Il termine da lui usato è “inventa” (da “invenio”), “trovata”, “scoperta”, al limite “inventata”, un termine che sembrerebbe più adatto per un ritrovato di tipo tecnico od una scoperta scientifica; di una religione ci aspetteremmo che sia concepita, elaborata, magari rivelata, ma non scoperta, trovata.

Quale senso dobbiamo dare a ciò? Senza dubbio si può “scoprire” una religione entrando in contatto con un gruppo umano che ne è portatore. Notiamo che ad esempio la leggenda arturiana sull’edificazione di Stonehenge dà fortemente l’idea dell’impadronirsi, del fare propri gli esiti di una cultura precedente, cosa senz’altro vera se il druidismo celtico era la prosecuzione di quello atlantico – megalitico.

Ma soprattutto venendo a contatto con gli eredi di quella che fu una civiltà superiore, ci aspetteremmo di apprendere no, o non solo, un messaggio religioso, ma una serie di conoscenze scientifiche e tecniche.
Bene, in realtà è proprio così: ad esempio le tecniche costruttive dei monumenti megalitici continuano a sfuggirci. Anni fa, un’equipe di archeologi provò a spostare un menhir fra i più piccoli di un complesso megalitico, che pesava “solo” cinque tonnellate. Nonostante tutti gli ausili offerti dalla tecnologia moderna, l’impresa si rivelò assolutamente improba, al punto che ancora oggi è un fitto mistero con quali tecniche i monumenti megalitici possano essere stati eretti.

Più in generale, però, se vogliamo capire cos’era il druidismo, dobbiamo sbarazzarci dell’idea ebraico – cristiano – islamica della religione come complesso fideistico indimostrabile.

Io mi sono già soffermato con una certa ampiezza in un articolo su questo stesso sito, Considerazioni sul druidismo, a cercare di valutare insieme a voi cosa esso realmente fosse (senza la pretesa di arrivare a conclusioni definitive in una materia che la scarsità di fonti scritte rende congetturale), ma sarà il caso di riassumere in breve alcuni concetti.

Il termine verrebbe da “dru – wid”, “vedere molto”. Assai più che a quella del prete, la figura del druido corrisponderebbe a quella del sapiente come l’intendeva la Grecia arcaica. La realtà, secondo questo tipo di pensiero, sarebbe unica, non distinta in naturale e soprannaturale, ed il lato fisico e quello spirituale ne farebbero parte al medesimo titolo, e così uniche sarebbero la conoscenza della realtà e la capacità di agire che sulla conoscenza si basa. Per conseguenza, il druido riassumerebbe in sé i tratti, che nella nostra cultura moderna post – cristiana corrispondono ad altrettante figure distinte, del sacerdote, del filosofo, dello scienziato, del tecnico, del mago.

Considerate le cose in quest’ottica, non ci stupiamo che i druidi fossero nella società celtica i continuatori dell’eredità culturale dei costruttori di megaliti, ed è esattamente questo il tipo di realtà che dovremmo aspettarci.

I Celti non furono i figli di Atlantide, ma con ogni probabilità ne furono gli allievi più fedeli. E’ un’eredità che in parte è giunta fino a noi, e che stiamo cominciando a riscoprire.

http://www.celticworld.it/sh_wiki.php?act=sh_art&iart=383

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