mercoledì 27 gennaio 2016

Come il Capitale si prende la nostra vita. L'esaltazione nefasta della Competizione

Il telelavoro, internet, i dispositivi portatili e la tecnologia mobile promettevano di emancipare l’uomo dalla schiavitù della presenza in ufficio. La narrazione dei lavoratori come imprenditori di se stessi, all’inseguimento del grande sogno americano del successo personale, prometteva di trasformare tutti in novelli Bill Gates.
 
La realtà è che grazie alla tecnologia il capitalismo si è preso anche gli spazi della nostra vita familiare, mentre la frammentazione dei lavoratori, schiavi di contratti di collaborazione occasionale e di certificati di Partita Iva, li ha isolati, messi gli uni contro gli altri e ha impedito che potessero aggregarsi per migliorare la propria condizione di vita e lavorative.
 
Il capitale, finalmente libero di amministrare la forza lavoro senza scontrarsi con il muro dei sindacati, ha riorganizzato le masse in grandi nuclei uniformi di individui, facilmente governabili. È l’era della “Bioeconomia”, l’economia che entra nella nostra vita privata e si prende tutto. Ne parliamo con il filosofo Diego Fusaro.
 
Diego, qualche anno fa ci promettevano che, grazie a fenomeni come il telelavoro, avremmo potuto ridurre drasticamente il numero di ore lavorate, aumentare l’efficienza e – addirittura – si fantasticava della possibilità di lavorare con un lap-top sulle ginocchia da un’isola caraibica, magari con i piedi nell’acqua. Ecco, in realtà quello che si sperimenta è esattamente il contrario, cioè l’aumento delle ore di lavoro e forse la riduzione dell’efficienza dovuta allo stress tecnologico.
 
È un tema decisivo per capire il nostro presente ed è un tema che si può inscrivere nella categoria della “bioeconomia“, che è una categoria che ha utilizzato recentemente l’economista Fumagalli, riprendendone una che era di Foucault, quella della “biopolitica“. Allude essenzialmente al fatto che l’economia si sta prendendo anche la vita. Il mondo capitalistico diventa vita e la vita diventa essa stessa capitale.
 
Perché in effetti si sta producendo, in maniera sempre più marcata, quello che vorrei definire “il superamento della distanza fra la vita e la razionalità economica” o, se preferite, la completa disarticolazione tra i tradizionali tempi dell’esistenza e i tempi del lavoro, che ora sono portati a coincidere con quelli dell’esistenza.
  
Ecco allora che compaiono i fenomeni a cui tu poc’anzi alludevi, e sono fenomeni che, per un verso, promettono emancipazione e libertà perché ti smarcano dal luogo di lavoro tradizionale: ufficio o fabbrica che sia. E che in realtà, dietro a questa promessa illusoria, fanno sì che venga meno, si cancelli, diventi labile la linea tra tempo libero e tempo lavorativo, perché di fatto anche il tempo libero viene invaso e colonizzato dal tempo di lavoro. Ti trovi a dover rispondere alle e-mail agli orari più impensati, ti trovi a dover svolgere attività lavorative direttamente da casa tua.
 
Gli studiosi di economia e di sociologia hanno coniato anche una nuova formula, che è quella di “domestication” o anche di lavoro svolto da casa, che è quella forma di lavoro con cui, appunto, ti promettono di non dover essere più vincolato al tuo ufficio, alla tua fabbrica. In realtà, poi, lavorando da casa viene totalmente meno il confine fra tempo libero e tempo di lavoro.
 
Anzi, potremmo dire che il lavoro stesso si disloca direttamente negli spazi più intimi della propria vita privata, cioè nella propria dimora. Viene meno il confine più sacro che separava il lavoro dal tempo libero, che è quello della casa domestica. Pesa il fatto che un tempo, quando scriveva Marx, ad esempio, il capitale e l’economia si fermava davanti ai cancelli della fabbrica, non poteva andare a occupare il tempo libero dell’operaio: si arrestava ai cancelli della fabbrica.
 
Ora invece ne è uscito, li ha valicati, e si occupa della totalità del reale e del simbolico, della totalità del tempo dell’esistenza umana e non conosce più alcun “hic sunt leones“. Perfino la casa, che è il luogo più intimo, deputato alla vita familiare, viene profanato dalle logiche della produzione flessibile, logiche che finiscono appunto per invadere anche il tempo del relax, degli hobbie, del divertimento e quant’altro. C’è un paradosso, oltretutto, in tutto questo: Aristotele nella politica distingueva due tipi di economie.
 
Diceva: “c‘è la crematistica téchne“, che letteralmente è la tecnica di produrre ricchezza, che è per sua natura tendente all’infinito e che Aristotele, come figlio della cultura greca, demonizza dicendo che produce dissoluzione della comunità perché promuove solo l’individualistico ed egoistico appropriamento della proprietà privata e della ricchezza.
 
Poi c’è, invece, un’economia buona – dice Aristotele -: “Oikonomike téchne“, la tecnica dell’oikos, della casa, che è quella volta a soddisfare bisogni finiti della propria casa e, per estensione, della società in cui si vive. Ecco, oggi sembra che l’oikonomike téchne, la tecnica domestica, si sia ridefinita come “bioeconomia“, che occupa anche la vita domestica e casalinga, e questo effettivamente è un aspetto interessante che mostra come, ancora una volta, la società di tipo economicistico continui a fondarsi in quello che Marx, nel capitale chiamava “furto di tempo di lavoro altrui“.
 
Questo non dipende anche dall’esasperazione della competitività?
 
Sono d’accordo con quello che dici, perché in nome della concorrenza, che è il grande dogma del nostro tempo, e della condizione neoliberistica, tutto diventa economia, perché tutto deve essere in competizione. Tutto il tempo della vita deve essere tempo della competitività e quindi del mercato: in base alle leggi della competitività, ad esempio, spariranno i giorni dedicati al riposo, spariranno gli orari lavorativi, bisognerà fare concorrenza lavorando 24 ore su 24.
 
Del resto la tendenza del capitale è proprio questa, impadronirsi della totalità della vita umana e del tempo. C’era un passaggio molto bello che Marx scriveva in “Miseria della filosofia“: “Gli uomini scompaiono davanti al lavoro“, vengono cioè risucchiati completamente. Il problema è che occorre anzitutto decolonizzare il nostro immaginario, perché siamo succubi delle retoriche neoliberistiche che promuovono tutti questi processi come se fossero entusiasmanti forme di emancipazione perché ti permettono di lavorare a casa, di essere imprenditore di te stesso, che è l’altra grande ideologia neoliberistica. In questo modo si rimuove il fatto che si va a violare ulteriormente lo spazio dell’esistenza.
 
È un processo che porta alla frammentazione della società, perché più gli individui si riuniscono e si riconoscono in valori da difendere collettivi, più sono forti; invece più li spezzetti, li frammenti, li separi, li isoli, ognuno a casa sua, ognuno col suo piccolo sogno, col suo piccolo progetto, ognuno in competizione con l’altro, “divide et impera”, e più hai una società frammentata facilmente governabile.
 
Certo che sì! Infatti è questa esattamente la logica neoliberistica: riuscire a fare in modo che anche il servo adotti le grammatiche del signore.
 
Questa espressione, questa dicotomia hegeliana, “servo – signore”, cioè che anche il servo si illuda di essere un imprenditore e quindi, in qualche modo, veda nell’altro servo non un compagno con cui solidarizzare e creare un’opposizione corale al mondo che li vede servi, ma veda invece un competitore a cui guardare con diffidenza, cercando di scavalcarlo nelle leggi della concorrenza. In questo modo paradossalmente non c’è più un rapporto classista fra un servo e un signore, ma si viene a instaurare un rapporto fra un servo e un signore che credono tutti e due però di essere signori e imprenditori e che scambiano fra loro una merce.
 
In realtà in questo modo viene occultato il rapporto di classe che in realtà persiste e, anzi, è più forte che mai oggi perché poi se vai a vedere questi finti imprenditori che in realtà sono il grande schieramento delle partite IVA o dei para-subordinati, in realtà sono dei precari che sono costretti, tramite la finzione giuridica della libertà, a vendere le loro braccia, i loro neuroni e il loro capitale cognitivo per poter campare.
 
Notare, per inciso, che anche il fatto che oggi in termini economici si vada verso la distruzione del contratto nazionale di lavoro e si proceda verso forme di contratti individualizzati, procede esattamente in questa logica, perché quando c’era il contratto nazionale si creava evidentemente una solidarietà dei lavoratori e c’era anche la possibilità, peraltro, per il sindacato, di intervenire e gestire, come dire, gli interessi del servo.
 
Oggi, invece, tramite l’individualizzazione del lavoro, ciascuno è un atomo imprenditoriale di sé stesso che deve, per così dire, rapportarsi direttamente con il padrone, con il signore. Il sindacato sparisce, siamo in un’epoca di de-sindacalizzazione e, complici le retoriche neoliberistiche davvero pervasive, anche i servi sono contro il sindacato: hanno metabolizzato questa ideologia efficientistica e produttivistica e lottano in difesa delle loro stesse catene dimenticando il fatto che coi contratti nazionali e con il sindacato era possibile difendere una classe, un gruppo di persone e non atomi individuali.
 
Tra l’altro, per inciso, questa ideologia dell’uomo imprenditore di sé stesso è interessante anche perché se sei tu imprenditore di te stesso, se fallisci, se sei disoccupato, se fai naufragio nella tua esperienza lavorativa individuale, ciò non dipende dalle contraddizioni sistemiche classiste del rapporto “servo-signore” ma dipende…
 
…dipende dalla tua inadeguatezza.
 
Dipende dalla tua incapacità di essere portato al successo, di far fruttare il tuo talento. Ecco perché oggi non si parla più, se ci pensi, di sfruttati, ma si parla di esclusi, esclusi che sono essi stessi responsabili, così nelle retoriche dominanti, della loro esclusione, e non è un aspetto secondario, credo.
 

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